Il rugby, quando il fair play va sempre in meta

Author Marco Capone contributor
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Calendar 20/09/2019
Time passed Tempo di lettura 9 min

Il collo taurino, il fisico da quercia. Il rugby, più che uno sport, è uno stile di vita. Leale. Una delle discipline sportive più praticate al mondo.

 

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Rugby, contea di Warwickshire, Inghilterra. Da qui prende il nome lo sport, quando nel 1823, William Webb Ellis, durante una partita di calcio, prese la palla con le mani e iniziò a correre verso la linea di fondo campo avversaria per poi schiacciarla oltre la linea di fondo campo. Un gesto che diede forma a uno sport meraviglioso, la forma di un pallone ovale e dei pali ad “acca”, che ancora oggi come allora presenta in campo valori e fair play.

In Italia, la nascita del rugby coincide quasi con la storia di un giocatore, diventato leggenda: Mario “Maci” Battaglini, nato proprio 100 anni fa. 1919, Rovigo: Maci era l’abbreviativo di Macistin, come lo chiamò la mamma vedendo il suo bambino grande e grosso; Maci restò il suo nome per sempre, tanto più che crescendo diventò davvero un uomo dal fisico imponente (135 kg per 185 cm di altezza).

 

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Il rugby di Battaglini era pura passione, impeto, amore. Per vivere in quei tempi duri si doveva lavorare sodo e il tempo per giocare era quello restante. Infatti, arrivò la guerra e Maci partì per il fronte russo, ma riuscì a tornare per riprendere in mano il pallone ovale. Una personalità esemplare.

«I miei rugbisti sono bravi soprattutto perché mi imitano nel mangiare.»

Rovigo era la sua città, con la squadra veneta vinse tre dei cinque scudetti conquistati in Italia (gli altri due arrivarono a Milano con l’Amatori, squadra gloriosa e plurititolata). Poi la carriera internazionale, ricevendo in Francia un altro soprannome: “Le Roi des Buteurs”, il re dei marcatori. Concluse la sua carriera come allenatore.

«Il football è uno sport bestiale giocato da bestie. Il calcio è uno sport da gentiluomini giocato da bestie. Il rugby è uno sport da bestie giocato da gentiluomini.»
Henry Blaha, giornalista americano

La filosofia del rugby prevede che la partita e gli avversari debbano sempre essere onorati e rispettati, giocando al massimo delle proprie possibilità e per tutti gli ottanta minuti di gara. Questo principio vale anche per le squadre più forti: abbassare il proprio ritmo in campo o smettere di cercare la meta solamente perché si sta vincendo largamente significherebbe non considerare l’avversario alla propria altezza.

 

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Il risultato è un modo per dimostrare il proprio valore in campo, ma nel rugby non è l’unico metro di giudizio e si può essere soddisfatti anche alla fine di una partita persa di quaranta punti.

 

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«La più bella vittoria l’avremo ottenuta quando le mamme italiane spingeranno i loro figli a giocare al rugby se vorranno che crescano bene, abbiano dei valori, conoscano il rispetto, la disciplina e la capacità di soffrire. Questo è uno sport che allena alla vita.»
John Kirwan, ex ct azzurro.

Oggi cominciano, in Giappone, i Mondiali che dureranno sino al 2 novembre. L’Italrugby di Conor O’Shea è stata inserita nella Pool B con Nuova Zelanda, Sudafrica, Namibia e Canada. L’obiettivo realistico degli azzurri, vista anche la composizione alquanto insidiosa e complessa del raggruppamento, è quello di arrivare al terzo posto per ottenere il pass per la manifestazione del 2023.

 

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Adesso, come non mai, gli italiani amano la palla ovale: ne sono innamorati perdutamente, restano incollati alla televisione quando gli azzurri scendono in campo. Nel corso degli anni tanti sono stati, e continuano ad essere, le personalità del mondo dello spettacolo, della politica, delle istituzioni che praticano il rugby.

Per esempio, Ernesto Guevara de la Serna – proprio lui, conosciuto come il “Che” – è stato un rugbista, nonostante soffrisse di asma. Durante le partite teneva in tasca il suo inalatore, che all’occorrenza diventava fondamentale. Il soprannome Fuser, che gli diede il suo caro amico Alberto Granado, deriva proprio da “Furibondo Serna”, visto che in campo eccelleva nelle ripartenze e nella mischia.

Pilone e terza linea di tutto rispetto è Javier Bardem con un passato anche nell’Under 20 spagnola: il poliedrico attore, nel tempo libero, prova qualche rimessa in gioco e qualche drop.

In “Lo chiamavano Bulldozer”, Bud Spencer interpreta una ex stella di football americano, ma nella vita le sue misure, 193 cm per 120 kg, gli consentirono di essere una più che discreta seconda linea nel rugby. Tra un ciak e un altro Carlo Pedersoli non lo smise di seguire, lo aveva definito lo sport “più leale e corretto”.

«Uno sport molto simpatico, perché è duro, c’è molto scontro fisico, ma non c’è violenza, c’è grande lealtà, grande rispetto. Giocare a rugby è faticoso, ‘no es un paseo’, non è una passeggiata! E questo penso che sia utile anche a temprare il carattere, la forza di volontà.»
Papa Francesco.

Anche Papa Francesco è un amante della palla ovale: il pontefice giocò con la casacca del San Lorenzo de Almagro prima di dedicarsi completamente alla sua vocazione.

A Million Steps

«Questo è il momento di costruire una Nazione.»

Non c’è da stupirsi, infine, se lo sport che ha riunito in tutti i sensi il Sudafrica sia stato proprio il rugby: l’indimenticato Nelson Mandela, nel 1995, vide alzare al cielo la coppa del mondo da parte del capitano degli Springboks, François Pienaar.

Mandela ebbe una geniale intuizione: ricostruire il suo Paese attraverso la diffusione e veicolazione dei valori dello sport. Mandela conobbe il linguaggio del rugby durante gli anni di prigionia osservando i comportamenti in campo e fuori dal campo mentre le guardie carcerarie giocavano. E proprio attraverso il rugby, allora giocato dalla sola minoranza bianca, decise di utilizzare lo strumento del «perdono» sorprendendo tutti quanti con la generosità e con la comprensione. «Io so cosa i bianchi ci hanno tolto – disse -, ma questo è il momento di costruire una nazione».

Il rugby era odiato dai neri che invece giocavano a calcio. Ma Mandela si rese conto che lo sport dei bianchi, che allora era la minoranza ricca e colta del Sudafrica, non poteva essere abolito: doveva essere destinato a sport di tutto il Paese. Così colse l’opportunità proprio durante i mondiali che si tennero in Sudafrica, per un evento che era di carattere celebrativo sportivo, ma a questo punto anche politico, con oltre un miliardo di persone pronto a seguirlo.

Il successo della nazionale di rugby sudafricana nella Coppa del Mondo del 1995, svoltasi proprio in Sudafrica, non fu soltanto una incredibile vittoria sportiva. Fu il trionfo di una nazione uscita dal buio dell’apartheid, in cui per la prima volta le distanze tra bianchi e neri si annullarono per sostenere l’esaltante cammino della squadra.

«Il rugby è un gioco primario: portare una palla nel cuore del territorio nemico. Ma è fondato su un principio assurdo, e meravigliosamente perverso: la palla la puoi passare solo all’indietro. Ne viene fuori un movimento paradossale, un continuo fare e disfare, con quella palla che vola continuamente all’indietro ma come una mosca chiusa in un treno in corsa: a furia di volare all’indietro arriva comunque alla stazione finale: un assurdo spettacolare.»
Alessandro Baricco

Siamo pronti, dunque, per seguire questi mondiali in Giappone: nella speranza di vedere gli azzurri vincere qualche match ma consapevoli che se ciò non dovesse accadere avremo, comunque, assistito a un grande spettacolo. Perché il rugby è uno sport che allena alla vita, come disse Kirwan. Si suda, si lotta insieme ai compagni di squadra. Ci si rialza sempre, dritti verso una nuova meta.

Foto d’apertura e foto nel testo di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto e Camera Press/Paul Velasco/cont​rasto
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