Adriano Panatta per il tennis italiano non è un nome come altri. Non sono solo le vittorie, per quanto importanti e storiche; è tutto l’insieme di capacità tecniche, dimostrate e riconosciute in campo, con stile, carisma e fascino fuori dal campo a farne un’icona senza tempo. Per fortuna nostra con DNA italiano.
Panatta nasce a Roma nel 1950, da subito a stretto contatto col mondo del tennis. Il padre Ascenzio, infatti, lavorava come custode ai campi del Tennis Club Parioli. Una specie di segno del destino.
Il piccolo inizia così a gironzolare per le strutture, prendendo progressivamente confidenza con racchette, palline e campi in terra rossa, iniziando a palleggiare per ore contro il muro. Questo ragazzino onnipresente viene chiamato “Ascenzietto” dai frequentatori, che ben presto però ne impareranno il nome vero.
Panatta infatti ci mette poco a scalare le classifiche nazionali tanto che già nel 1969 partecipa all’Australian Open, e nel 1970 si impone alla ribalta nazionale vincendo i Campionati italiani assoluti contro un avversario fortissimo: Nicola Pietrangeli, uno dei migliori tennisti italiani di sempre, di 17 anni più grande e vincitore già sette volte, di cui le ultime tre edizioni consecutive.
Il confronto tra i due era anche, inevitabilmente, generazionale: Pietrangeli incarnava lo stile classico, l’eleganza, mentre Panatta era voce dello stile moderno emergente, più improntato al ritmo, al gioco a rete, al rischio e all’attacco.
L’anno successivo lo scontro al vertice si ripresenta, e vince ancora il giovane campione. In totale vincerà i Campionati assoluti per sei volte, fino al 1975.
Il tennis di Panatta esce così dai confini nazionali per approdare a quelli internazionali. Le vittorie continuano ad arrivare: già nel 1971 vince il Senigallia Open, il primo dei suoi 10 titoli conquistati in singolare. Ma la differenza tra cronaca comune e leggenda si trova in un anno preciso, il 1976. Con parole sue:
“Al Roland Garros in particolare giocai il miglior tennis della mia vita, dopo aver annullato con un tuffo un match point dell’avversario e surclassato Borg nei quarti di finale. Sessanta secondi di pienezza totale, di felicità, alla fine della finale con Solomon e poi basta. La sera, nella cena di gala, ricordo, ero già molto triste. Un senso di vuoto. Quasi una depressione, che mi è durata tre settimane di seguito”.
In quella stagione agonistica Panatta è toccato da una specie di grazia che lo porta a risultati storici: tre vittorie negli Internazionali d’Italia, nella sua Roma, nel Roland Garros e nella Coppa Davis.
Il primo titolo di quel meraviglioso ’76 sono gli Internazionali d’Italia, il più importante torneo italiano e il secondo sulla terra rossa dopo il Roland Garros. Panatta direttamente dal torneo:
“Per organizzare un torneo bisogna conoscere bene la città in cui si svolge. Roma è una grande ‘zoccola’: i miei Internazionali sposavano sport e mondanità, i campioni del tennis e il generone romano”.
Per arrivare alla vittoria supera Newcombe, tennista australiano numero uno al mondo nel 1974 che in carriera vanta sette titoli in singolare negli Slam, e Vilas, argentino testa di serie numero uno della competizione, numero due al mondo nel 1975, che finirà la carriera con quattro Slam in bacheca.
“Quella vittoria non la dedicai a mio padre, a mia madre, a mia moglie o a mio figlio. La dedicai a me stesso e basta!”
Poche settimane dopo arriva il Roland Garros, un torneo che già da solo basterebbe per proiettarlo nella leggenda. Si gioca ancora, ovviamente, sulla terra rossa, nettamente la superficie preferita di Panatta nonostante il suo stile di gioco suggerirebbe altro.
In Francia vince in finale contro Solomon diventando il secondo italiano dopo Pietrangeli ad aggiudicarsi uno Slam, ma la vera impresa arriva ai quarti quando si trova di fronte un mito come Borg, testa di serie numero uno del torneo, e lo elimina in quattro set.
Non una novità per Panatta: i due si erano già incrociati sempre al Roland Garros nel 1973, e anche quella volta si era imposto l’italiano. Questi due match fanno di Panatta l’unico tennista ad aver eliminato Borg dal torneo di Parigi, vinto per ben 6 volte dallo svedese. Del campione svedese dirà Panatta:
“Volevo sempre giocare contro di lui, perché non pensavo di poter perdere”.
Da questi scontri nascerà un rapporto di simpatia tra i due che prosegue ancora oggi. A fine anno ecco la Coppa Davis. La massima competizione a squadre per nazioni nel 1976 si gioca in Cile durante il regime di Pinochet, per di più nello stadio simbolo delle torture riservate agli oppositori.
E in Italia scoppia la polemica circa l’opportunità o meno per l’Italia di partecipare. Panatta racconta che
“Fu Ignazio Pirastu, al tempo responsabile della Commissione Sport del Pci, a farci arrivare l’inattesa notizia: per Berlinguer dovevamo andare in Cile. E voleva lo sapessimo. Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile del regime-Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un liberatutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest’ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer”.
E la squadra italiana, composta da Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, con Pietrangeli capitano non giocatore, vince contro il Cile per 4-1, aggiudicandosi la prima e per ora unica Coppa Davis dell’Italia.
Panatta si rende anche protagonista di una provocazione. Durante il doppio convince il compagno Bertolucci a scendere in campo con delle magliette rosse come forma di protesta. All’ultimo set tornarono in maglia blu.
La sua carriera prosegue con altri tre titoli in singolare, una finale persa a Roma con Borg, i quarti di Wimbledon e altre tre finali di Coppa Davis, tutte perse dalla squadra italiana. Si ritira nel 1983, a trentatré anni.
Panatta a distanza di quarant’anni rimane il miglior tennista italiano dell’era Open, e una cosa su di lui dicono tutti i suoi avversari: avrebbe potuto vincere di più, anche molto, se si fosse impegnato davvero. Lo hanno detto due grandissimi come Borg:
“Panatta è un giocatore che potrebbe rappresentare un incubo costante per Connors, McEnroe e me. Lo è invece solo raramente” e Pietrangeli “Adriano è nato per giocare a tennis. Peccato che sia durato poco perché sarebbe stato in grado di battere tutti i miei record”.
Così attorno al campione romano si è creata quest’aura di talento pigro, che probabilmente lo rende anche più affascinante e umano. Ma non diteglielo, che potrebbe risentirsi:
“Non potevo essere io il modello da imitare. Ero talento puro. Se arrivi a giocare a un livello mondiale non puoi permetterti d’essere pigro. Ho subito i luoghi comuni che vedono nel romano un campione d’indolenza. Capitava magari quando, dopo tre mesi di torneo, sentivo l’esigenza di staccare, di dedicarmi ad altro. Il tennis non è mai stato una monomania per me”.
Sarà per questo che dopo il ritiro ha perso tutti i trofei delle sue vittorie. Panatta non ha mai voluto diventare un uomo-vetrinetta, costretto a vivere in un museo di ricordi. Sguardo sempre avanti, corsa verso la rete, proprio come quando giocava.