Ho fatto due chiacchiere con Fabio Attanasio, un ragazzo poco più che trentenne, che conosce il mondo della sartoria come fosse nato negli anni Cinquanta. Lui si definisce artisanologist ed è il fondatore del blog The Bespoke Dudes.
Quando lo incontro ha indosso un completo grigio perla, ammetto di faticare a separarlo dall’affabilità dei suoi modi. È un abito in fresco di lana di Huddersfield, mi dice. Esordisco subito con la mia curiosità più grande.
Come inizia la passione di un giovane per la sartoria?
«Quando avevo poco più di 12 anni, ogni mattina vedevo mio padre andare al lavoro in un completo elegante, ineccepibile. Allora iniziai a seguire il suo esempio, mimando gli abbinamenti: sulla sedia preparavo i vestiti per il giorno dopo. Certo, andavo a scuola, quindi combinavo pantaloni e felpe, ma facevo molta attenzione ai colori.»
Seguendo la scia paterna, studia giurisprudenza, ma sente sempre più forte la spinta verso l’estetica dello stile maschile, subendo il fascino di un tempo. Dopo la laurea, inizia a bussare alle porte di piccole e grandi sartorie, passando i pomeriggi negli angoli a osservare gli artigiani al lavoro, ascolta il battito delle macchine da cucire, apprende il linguaggio proprio dei “maestri”, tocca con mano i tessuti. E ha voglia di raccontare quello che vede e ascolta.
La materia lo affascina, mi racconta. Lo attrae il modo in cui una trama di fili si trasforma dalla bi alla tridimensionalità. Da scampolo a giacca.
Ha girato un numero incredibile di sartorie «depositarie dei principi dell’eleganza classica», da quelle più piccole e nascoste della sua città natale, Napoli, a quelle più blasonate, fra Londra, Firenze, Parigi e Milano: oltre 150 in 7 anni.
Si tuffa in questo mondo. Osservare con attenzione i dettami della tradizione – del Made in Italy primariamente, ma non esclusivamente – gli dà respiro nel presente. Gira l’Italia, l’Europa e il mondo, ampliando costantemente i propri orizzonti. La giacca, per esempio, man mano che dai Paesi del Nord ci si sposta verso Sud si alleggerisce, in materia e struttura, mi fa notare.
Rivolgo lo sguardo al cabochon rosso corallo che sbuca dall’occhiello della sua giacca, lui lo nota e, sorridendo, tira l’altro capo della catenella fuori dal taschino: c’è un piccolo cornetto rosso. Anche questa è Napoli.
La domanda mi viene spontanea: qual è il luogo dove torneresti cento volte a Napoli?
Fabio tocca il sottilissimo bordo dorato dei suoi occhiali da vista, accenna una smorfia, a metà tra l’ilarità e la nostalgia, poi mi dice: «Rivafiorita, un piccolo villaggio di pescatori facilmente raggiungibile da Posillipo. È l’apoteosi del chilometro zero…».
Sorride, dà più ritmo al suo accento, finora rimasto in sottofondo. Nei suoi racconti c’è il sole che s’infila tra gli scalini dell’atrio del Palazzo dello Spagnuolo, nel rione Sanità: «uno dei due architetti si chiama Francesco Attanasio» mi dice, «ma non credo sia un mio antenato», si affretta ad aggiungere ridendo. Ci sono gli scorci su finestre socchiuse di palazzi barocchi e il variopinto frastuono di partite di calcio giocate tra statuine di santi e Maradona, nei quartieri spagnoli. C’è la Napoli aristocratica e quella popolare, un volto unico che emerge da una contrapposizione netta, e c’è anche la Napoli raccontata in punta di piedi da un elegantissimo Luciano De Crescenzo nel film Così parlò Bellavista, il suo preferito.
Penso ai contrasti, che non sono nuovi a Fabio, come il nome del blog rivela: Bespoke “fatto su misura”, con tutta la sua eco di ricercatezza, e Dude, espressione che indica, nell’accezione più diffusa, un modo facile e iper-colloquiale di rivolgersi a qualcuno (in seconda battuta il dizionario ne dà anche il significato di “ricercato nel vestire”). Il silenzio dell’atelier di un sarto e i ritmi della strada, due mondi che Fabio ha sempre guardato contemporaneamente.
In che modo scegli ogni mattina cosa indossare?
Risponde con fare certo, non credo sia nuovo a questa domanda. «Penso rapidamente al programma di impegni della giornata e poi decido come sentirmi al meglio in quello che indosso sempre rispettando le persone e le circostanze che mi attendono. Vestirmi – confessa – è quasi un rito, una serie di piccole azioni che mi dà piacere».
Guarda al classico, apprende, gioca di contrasti – rieccoli! – e il risultato è uno stile molto personale, “su misura” appunto, come la giacca che indossa oggi, con l’accollo perfetto e le maniche bilanciate. «Sto così attento all’appiombo dei pantaloni che lo definirei quasi un vezzo», mi dice. La sfida sartoriale in fondo è qui, raddrizzare quel che non è nato dritto. Poi ci sono le imperfezioni nell’abito, qualche passaggio di cucitura “storta”, quei piccoli segni lasciati dalla mano che ha tenuto ago e filo, ma «il fascino e tutto là». La cosa più importante, aggiunge, è riconoscere che l’eleganza sta nel sentirsi a proprio agio nei vestiti.
Un’ultima domanda: in quale epoca avresti voluto vivere?
«Senza dubbio tra i ’50 e ’60, gli anni in cui la bellezza si esprime ai massimi livelli in ogni settore, quello sartoriale come degli orologi, e poi sono gli anni della mitica Mercedes 300 sl Ali di Gabbiano…».
E in effetti me lo immagino perfettamente, in quegli anni a bordo di una Gullwing sulla serpentina della costiera amalfitana mentre canta “Keep on movin’, questa storia finirà…”, canzone di Pino Daniele, la preferita di Fabio.