«Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte.»
Il grattacielo Pirelli e la sedia ultraleggera. Le cattedrali e l’automobile-diamante. I quartieri urbani e le scenografie del Teatro alla Scala. Le case “esatte” e le ceramiche.
In più di cinquant’anni di carriera, Gio Ponti è stato architetto, designer, insegnante, scultore, scenografo. In una parola: artista. Ha attraversato il Novecento – la guerra, la ricostruzione, gli anni del boom – diventandone uno dei più compiuti interpreti, e anticipando nel suo lavoro molti temi della sensibilità contemporanea: semplicità, funzionalità, rispetto dell’ambiente.
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Oggi una mostra al MAXXI di Roma “Gio Ponti. Amare l’architettura” celebra – fino al 13 aprile 2020 – l’architetto che meglio ha saputo esportare la creatività italiana nel mondo. Sono andata a visitarla e te la racconto qui, senza svelare troppo, perché sullo schermo ti perderesti tutto il bello.
È la sua voce ad accompagnare lo spettatore nel percorso della mostra, grazie a interviste d’epoca e filmati Rai. Spiega, da un monitor in bianco e nero, che la sua instancabile ricerca ha sempre avuto come perno l’idea di leggerezza, che doveva essere l’obiettivo finale, il futuro:
«Si va nella tecnica dal pesante al leggero, dall’opaco al trasparente. Ci sarà uno stile leggero e trasparente, semplice, collegato ad un costume sociale semplificato.»
Secondo Ponti la storia dell’umanità avanzava dalla pietra alla plastica seguendo un progressivo alleggerimento: lo stesso slancio che cercava nelle forme assottigliate e nelle facciate leggere come “fogli di carta da bucare”, nelle pareti ‘pieghevoli’ che rientrano in se stesse fino a sparire. Ed eccole, le pareti a scomparsa, che dividono gli ambienti della mostra, i corridoi e le sale.
Il percorso inizia con qualche nota biografica, ma soprattutto con una galleria di aforismi che danno un’idea precisa del carattere di questo artista poliedrico. Colore preferito? Tutti. La tradizione? Le tradizioni, piuttosto. La sua vita? «Perseguitata dalla fortuna».
‘Popolare’ non significava dozzinale e ‘semplice’ non significava spoglio.
Nato a Milano nel 1891, aprì il primo studio insieme all’architetto Emilio Lancia, dove si occupava soprattutto di una nuova idea di casa, la “casa esatta” funzionale e spaziosa, fondata sull’idea di italianità. Bisognava saper rispondere in anticipo alle grandi sfide dell’urbanizzazione di massa, alle case prefabbricate: per l’architetto Ponti ‘popolare’ non significava dozzinale (anzi, il suo contrario) e ‘semplice’ non significava spoglio.
La casa italiana, secondo Ponti, è “senza complicazioni dentro e fuori” ma il suo disegno non segue solo esigenze materiali. Senza ispirazione, senza arte, la sola tecnica è un errore, diceva l’architetto. Negli anni Trenta arrivarono le grandi commissioni pubbliche, poi tutto fu interrotto dalla guerra, che ridusse il Paese in macerie. Ponti è stato uno dei protagonisti della ricostruzione, come amava ricordare:
«L’Italia l’han fatta metà Iddio e metà gli architetti.»
Intanto scriveva, insegnava, inventava e la sua fama si estendeva oltre i confini dell’Italia. Particolarmente suggestivi sono i modellini ricostruiti in scala, che, di fronte alle grandi finestre del MAXXI, danno l’impressione di ammirare uno skyline in miniatura.
Dagli anni ’50 iniziarono ad arrivare prestigiose commissioni internazionali, che lo portarono a lavorare a Caracas, a Teheran, a Islamabad, a Hong Kong. A San Paolo disegnò l’Istituto di Fisica nucleare, a Stoccolma l’Istituto di Cultura Italiana. In ogni angolo del globo lasciò un’impronta di stile italiano:
«Dove c’è architettura c’è Italia. Essere conservatori italiani in architettura significa solo conservare l’antica energia italiana di trasformarsi continuamente.»
I pannelli su cui sono montati i suoi disegni sono in tenere sfumature pastello, rosa, giallo pallido, carta da zucchero, e rievocano subito l’atmosfera degli anni ’50 e ’60. Per contro, i suoi disegni sono coloratissimi, pieni di vita, di guizzi creativi. La sua ricerca costante della leggerezza si traduceva anche in aspirazione alla verticalità, all’altezza: nel 1961 cambiò per sempre lo skyline di Milano con l’inaugurazione del palazzo Pirelli. A chi diceva che il Pirellone somigliava a un transatlantico, rispondeva: «Le persone sanno chiamare le cose nuove solo con nomi vecchi, perché le cose nuove non le fa nessuno».
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Ambientalista prima del tempo, immaginava quartieri dove il verde scorresse come un fiume. Gio Ponti è stato un elegante milanese d’altri tempi, in giacca e papillon: si definiva un uomo “ilare e senza ozi” sempre intento a lavorare, scrivere, disegnare. Anche da ottantenne ha continuato a progettare e sperimentare, immaginando chiese e le cattedrali inondate di luce, con le facciate che si smaterializzano e i pavimenti colorati.
Nella mostra si possono ammirare i suoi disegni, i progetti con le annotazioni originali, le lettere battute a macchina e poi colorate a mano, ma anche i pezzi d’arredamento: impossibile resistere alla tentazione di sedersi sulla sua celebre poltrona reclinata. Accanto ai grandi progetti urbanistici, il design degli oggetti comuni, ripensati con linee così moderne da essere contemporanee anche oggi: la sedia ultraleggera, le posate che si incastrano, le lampade da scrivania, la macchinetta del caffè, l’automobile “diamante” piatta e non bombata, che ha anticipato il design dell’industria automobilistica di vent’anni almeno.
Gio Ponti è morto quarant’anni fa, nella casa che lui stesso aveva progettato: non prima di aver trasformato il design italiano per sempre.