Milano è grigia, Milano è fredda, Milano va di corsa. Ma Milano è anche accogliente, dà speranze e alimenta i sogni. Negli anni, lo status della città è cambiato e la sua immagine si è delineata sempre di più: dinamica, verticale e indaffarata nelle zone centrali; distesa, opaca e solitaria nelle campagne circostanti.
E allo stesso tempo, Milano è diventata negli anni capitale di una moda e di uno stile inconfondibili, che si sono sviluppati nel tempo rimanendo fedeli ai canoni che la contraddistinguono, canoni di elegante essenzialità, che non fa mostra di opulenza, ma che poggia su materiali di alta qualità e tonalità di colore mai eccessive.
E sono queste regole, mai scritte, ma tramandate, che ritroviamo, anche solo per essere violate, anche nel percorso dei protagonisti e dei personaggi cha fanno da sfondo ai film ambientati a Milano.
Alcuni luoghi più di altri simboleggiano queste due anime della città e il cinema non ha esitato a catturarli in diverse occasioni.
“Tra tutti, il fulcro dei movimenti è la Stazione Centrale, più volte protagonista di sequenze memorabili e osservatorio estremamente interessante dello stile della città perché rappresenta da sempre il primo impatto con la metropoli”.
Così Totò e Peppino scendono dal treno bardati come cosacchi ― perché “a Milano non può fare caldo” ― nella speranza di far ricredere il nipote innamorato, mentre Ugo Tognazzi, protagonista de La vita agra (1964), sale la scala mobile in un cappotto pied-de-poule e sciarpa intorno al collo, attorniato da viaggiatori dallo stile uniforme:
“cappotti scuri, sobri, con camicia bianca e cravatta a tinta unita, e signore con cappotti scuri, colli di pelliccia discreti e tacchi bassi”.
Tognazzi saluta l’amante, elegantissima nella sua essenzialità come nelle scene precedenti e accoglie la moglie, fornendoci così la cornice della vicenda di integrazione sociale al centro del film.
Ma non sono solo i problemi d’amore a portare i personaggi del cinema alla Stazione: Giovanni e Giacomo, in Chiedimi se sono felice (2000) salgono su un treno per andare in Sicilia a trovare Aldo, gravemente ammalato, e dare inconsapevolmente nuova vita alla loro amicizia, rovinata anni prima da uno sbaglio; Massimo Girotti, in Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, si denuda davanti ai binari, lasciandosi alle spalle la sua esistenza vuota e superficiale, per cominciare da capo.
E denudarsi significa anche togliere quegli abiti borghesi che accompagnano la sua vita da industriale: giacca, cravatta e camicia bianca, o golf di cashmere dai toni neutri sono i simboli di una classe sociale. Anche gli abiti hanno un ruolo all’interno di un film: Pasolini ne è talmente convinto, da chiamare Capucci a realizzare i costumi per Silvana Mangano e per Terence Stamp.
Spostandoci verso il Centro, osserviamo Piazza del Duomo, centro fisico e sociale della città, teatro di scontri ne La vita agra, di disguidi comici in Totò, Peppino e la… malafemmina (1956), e di avvenimenti miracolosi, come quello dell’indimenticabile finale di Miracolo a Milano (1951), diretto da Vittorio de Sica:
“il volo delle scope rubate ai netturbini per scappare dalla prepotenza del proprietario terriero è la perfetta sintesi tra l’anima operosa di Milano e la sua capacità di essere anche aperta, fiabesca, leggera”.
Ma sono spesso la periferia e la campagna i luoghi più ricchi di significato simbolico, e gli stessi spostamenti a Milano si trasformano in momenti di grande interesse.
Su e intorno ai tram affollati da persone composte e in perfetto stile milanese, infatti, si costruiscono sequenze iconiche e memorabili, su tutte la folle “gara” fra Achille, interpretato da un Dario Fo dallo stile decisamente alternativo (si pensi al completo gessato che accompagna diverse scene nel corso del film), e uno dei tipici mezzi pubblici meneghini ne Lo svitato (1956) di Carlo Lizzani.
Le campagne che circondano Milano ospitano momenti che possono essere comici o tragici ma, spesso, legati a una volontà di isolarsi dalla folla, di allontanarsi dal suo centro nevralgico per poter discutere, rilassarsi, addirittura incontrarsi di nascosto.
Questo è proprio quello che succede in Cronaca di un amore (1950): nel primo lungometraggio di Michelangelo Antonioni, Massimo Girotti e Lucia Bosè sono due amanti che organizzano un drammatico piano proprio su un ponte sul Naviglio, appena alle porte del capoluogo meneghino.
In un piano sequenza passato alla storia, il paesaggio sottolinea ancora di più l’isolamento estremo provato dai due, chiusi ciascuno nel proprio elegantissimo cappotto a doppio petto completamente abbottonato, dove la ricchezza dei gioielli, la perfetta fattura del cappello di lei e l’eleganza del movimento acuiscono il contrasto con l’ambiente circostante e la sensazione di abbandono definitivo di un mondo e di una morale a cui appartenevano fino a quel momento.
I Navigli fanno capolino anche in due scene dall’atmosfera opposta rispetto a quella tragica di Antonioni. In Audace colpo dei soliti ignoti (1959), dopo il colpo, la banda di squinternati fugge e si trova a passare in auto lungo il Naviglio Grande, all’altezza di Viale Cassala: a bordo dell’unica automobile presente in scena si allontanano così, solitari, dal centro.
In ‘Chiedimi se sono felice’ (2000), invece, Giovanni e Giacomo percorrono in bici il Naviglio Pavese: con la Torre Velasca alle spalle, Giacomo cerca di parlare di quale pièce teatrale mettere in scena, mentre Giovanni lo interrompe costantemente per fargli notare gli animali che li circondano, per ricordargli:
“ascolta anche un po’ la natura”.
La Stazione Centrale, Piazza del Duomo, i tram e le periferie sono alcuni dei luoghi che diventano protagonisti delle vicende ambientate a Milano e c’è un film che li riunisce tutti per raccontare una storia di nuovi inizi e speranze che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario legato alla città dal momento della sua uscita in sala: Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti (la sua storia la puoi leggere qui).
Una Milano che pare accogliente e profuma di successo quando l’intera famiglia scende dal treno in Stazione e sale sul tram per raggiungere il fratello già stabilitosi nel capoluogo, ma che rivela pian piano la sua ostilità con l’aumentare della drammaticità della vicenda.
E insieme ai protagonisti cambia il loro stile: inizialmente più “paesano”, il look di Rocco e dei personaggi maschili diventa più milanese, l’immancabile impermeabile sostituisce i cappotti ruvidi e informi dell’inizio e Nadia, a significare un cambiamento interiore e di vita, passa da un’iniziale abito da sera con scarpe alte e decorate di strass ad abiti molto semplici e poco vistosi.
Rocco, Simone e Nadia sono le principali vittime di un tragico destino da cui non possono scappare e si muovono in una città che risulta piatta e dura, donando comunque immagini memorabili: la passeggiata sul Duomo e l’efferato omicidio all’Idroscalo sono scene che, grazie alla fotografia di Giuseppe Rotunno, dipingono Milano con un’intensità che si fa fatica a ritrovare in qualsiasi altra opera.
E un maestro come Piero Tosi, premiato con un Oscar alla carriera nel 2013, ha saputo dare un’impronta allo stile della città e dei suoi protagonisti con la grandezza di chi fa parlare anche il più piccolo dettaglio.