Chet Baker, il viso d’angelo che stregò l’Italia

Author Marco Frattaruolo contributor
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Calendar 23/02/2017
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Chet Baker è il rappresentante più illustre di quello che viene definito il “cool jazz”. Sul finire degli anni ’60 il trombettista americano passò dall’Italia dove riuscì a lasciare il proprio segno, nel bene e nel male.

Hotel Universo, Lucca, stanza numero 15, 1960. Sul davanzale della finestra che affaccia sul piazzale del Teatro del Giglio, ogni giorno Chet Baker si rannicchia con in grembo la sua tromba chiamando a raccolta grappoli di giovani ragazzi. Come fosse una sorta di pifferaio magico, dal viso d’angelo e dall’anima demoniaca. Una sagoma decora la finestra spalancata.

Da lontano i ragazzi fanno fatica a mettere a fuoco quel ragazzo dai capelli laccatti all’indietro, con le maniche della camicia arrotolate e con in mano una tromba dorata sulla quale riflettono gli ultimi raggi di sole, di una giornata che sta per giungere a termine.

Il mento poggiato sul petto, le labbra che accarezzano delicatamente un bocchino ormai levigato. Ogni giorno Chet trattiene il respiro. Poi inspira ed espira e le note vellutate cominciano a fluttuare in direzione di quei giovani che col naso all’insù cercano, estasiati, di catturare quella malinconia che disegna le spiagge di una San Francisco immersa nel sole.

“Sono decisamente un romantico, non credo che valga la pena sopportare il dolore e i sacrifici nel corso della vita se non si ha qualcuno da amare veramente”.

Baker nel 1958 l’ha lasciata, la sua San Francisco, o meglio vi è scappato. Scappato dai problemi che la dipendenza da eroina stava cominciando a procurargli. In Europa pensava, ingenuamente, di riuscirsi a ripulire. E invece nei soggiorni di Parigi prima, Milano, Firenze, Lucca poi ad attenderlo non avrebbe trovato che la solita, sinistra, inquietudine.

A Million Steps

Chet sbarca in Italia nel 1958, da artista già affermato. Nel 1955 era stato nominato miglior trombettista d’America dal pubblico della rivista Downbeat, facendo le scarpe a mostri sacri del jazz, quali: Dizzy Gillespie, Miles Davis, Clifford Brown. Baker, il trombettista da molti definito il James Dean del jazz, un bianco incoronato a Re della musica nera.

Ma della gloria il ragazzo di Yale (Oklahoma) non ha mai saputo che farsene, quello di cui era sempre stato alla ricerca era il brivido, la libertà di sentirsi libero di sfrecciare su una cabriolet con affianco una bella ragazza e in bocca una sigaretta consumata dal vento.

“In Europa il jazz è considerato come un’arte. In America è un diversivo. Qualcuno apre un ristorante e chiama a suonare una band al lato della sala. Le persone non ascoltano”.

Così arriva in Italia, l’Italia di fine anni ’50 che tenta di rimettersi in piedi, pensando che poteva essere quella penisola baciata dal sole e cullata dal mare il posto giusto dove lui stesso poteva provare a rimettersi in sesto.

Ma l’uso e l’abuso di droga lo avrebbe accompagnato per tutta l’esperienza sulla Penisola. Più volte durante il suo soggiorno in Italia Chet avrebbe deciso di ricoverarsi in cliniche per la disintossicazione, con scarsi risultati.

A corto di soldi comincia a far visita ai medici, lamentando lancinanti dolori alla testa e riuscendo ad estorcergli “preziose” prescrizioni. Tra maggio e luglio del 1969 riesce a collezionare 23 ricette di Palfium, un narcotico tre volte più potente della morfina, da iniettarsi tramite siringa.

Il 22 luglio 1960, durante un viaggio in direzione Le Focette (località di Marina di Pietrasanta), Baker coglie l’occasione di una sosta in un autogrill per recarsi in bagno ed iniettarsi l’analgesico.

Tra le strette quattro mura del bagno di servizio il jazzista più cool del mondo si mette alla ricerca di una vena consumata. Non trovandola entra nel panico. Passano i minuti, troppi minuti, che destano il sospetto di due guardie in borghese.

Toc, toc. Le guardie invitano il giovane dai capelli laccati ad aprire la porta. Dietro ad essa un Beker tremolante non ha il tempo di dare alcuna giustificazione. Viene arrestato per possesso di sostanze illegali e portato in commissariato. All’indomani Baker finisce sulle pagine dei giornali, il suo mito gonfiato da una stampa scandalistica, che vive di scandali. Nell’aprile 1961 Baker viene condannato a scontare 16 mesi di carcere.

“Non credo che il jazz morirà mai veramente. È un bel modo per esprimere sé stessi”.

Da quel momento le tende che fanno ombra alla stanza 15 dell’Hotel Universo restano malinconicamente chiuse. Baker e la sua inquietudine vengono trasferiti al buio di una grigia e fredda cella. I silenzi delle lunghe giornate al carcere San Giorgio dettate dai ritmi del sole.

Tramonto, alba e poi tramonto e ancora alba. L’unica richiesta che Baker è in grado di fare al direttore del carcere, con il suo timido italiano, prima di essere rinchiuso è quella di portare con sé la sua fedele compagna di vita. Il direttore acconsente.

Da subito Baker comincia a dipingere le grigie mura della sua cella con le note liberate da quella fragile tromba. La sua musica ogni giorno evade dalle sbarre d’acciaio e in poco tempo fa del piazzale antistante il carcere San Giorgio il nuovo punto di incontro dei giovani ragazzi che sin dal suo arrivo in Versilia lo hanno cominciato a venerare come un Messia.

Lo stesso piazzale in cui, la sera di natale 1960 l’amico clarinettista Henghel Gualdi, con quattro accompagnatori, improvvisa un concerto in suo onore facendo sbrilluccicare gli enormi, dolci, occhi neri di Baker.

Baker durante la permanenza in prigione riesce a disintossicarsi dalla droga e al tempo stesso a comporre brani su brani (in molti reputano il periodo di detenzione uno dei più prolifici della sua intera carriera), che sarebbero poi finiti, sotto mentite spoglie, nei suoi album successivi. Le guardie e i suoi compagni di cella cominciano ad affezionarsi a lui, tanto da chiamarlo ‘Maestro’ e ‘Professore’, per la sua cordialità e comprensione.

Dopo un anno di inferno Baker torna a respirare la libertà. In molti, oltre oceano, si chiedono se il lato più torbido del trombettista si sia finalmente dissolto. Non sarà così.

Ad inizio 1964 l’esperienza italiana di Baker finisce. Il viso d’angelo del jazz torna negli Stati Uniti. In Italia il jazzista ha comunque lasciato il segno come musicista ed attore; lavorando al fianco di Ennio Morricone e Piero Umiliani con il quale avrebbe avuto modo di comporre le colonne sonore per i film ‘I Soliti Ignoti’, ‘Urlatori alla Sbarra’ e ‘Smog’.

“Quella sera, quando i giornali di Lucca sono usciti, hanno riportato una storia simile a questa: Chet Baker, famoso jazzman americano è stato trovato privo di sensi nei bagni di una stazione di servizio. La polizia è stata costretta a sfondare la porta. Baker era coperto di sangue così come la maggior parte della stanza. Allen, io non ero svenuto, non dovettero sfondare la porta, e sulle mura non era presente una sola goccia di sangue…”

Riuscì a lasciare un segno tanto forte che, ancora oggi, alzando gli occhi verso la finestra della camera 15 dell’Hotel Universo, la sua sagoma appare lì avvolta dalla sua melanconica bellezza e durante il silenzio dei rossi tramonti le note flebili della sua tromba ancora risuonano, tracciando la via di quella libertà che Baker riuscì a trovare solo in una notte di maggio del 1988 ad Amsterdam.

Foto di JazzSign/Lebrecht Music & Arts/Lebrecht Music & Arts/Contrasto e CAMERA PRESS/Gino Begotti/Contrasto
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