Chiamami col tuo nome: Oscar allo stile

Author Marco Colombo contributor
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Calendar 05/03/2018
Time passed Tempo di lettura 4 min

È tempo della novantesima edizione degli Academy Awards e Chiamami col tuo nome (2017) ― ultima fatica del regista italiano Luca Guadagnino e atto conclusivo di un’ideale “trilogia del desiderio” completata da Io sono l’amore (2009) e da A Bigger Splash (2015) ― che ha affrontato la Notte degli Oscar forte di ben quattro candidature: Miglior Film, Miglior Attore Protagonista, Miglior Sceneggiatura Non Originale e Miglior Canzone Originale.

“Estate 1983. Oliver, ventiquattrenne studente americano, giunge nella campagna lombarda per una vacanza-studio. Ospitato nella splendida tenuta dei coniugi Perlman, il giovane accende ben presto la curiosità di Elio, diciassettenne figlio della coppia”.

Tratta dall’omonimo romanzo (2007) di André Aciman, la pellicola accarezza gli affanni dell’adolescenza senza vergognarsi delle goffaggini della seduzione né della scoperta di una sessualità tanto carnale quanto eterea, compagna di una stagione fatta di vite incompiute, spese al ritmo proustiano di sei settimane in cui i giorni sembrano non scorrere mai, prima di svanire in un languido cicaleccio.

A Million Steps

Come si può facilmente intuire, una simile complessità tematica ― arricchita peraltro dall’intimità delle note familiari e dalla palpitante bellezza dell’arte di cui queste sono nutrite ― non può certo essere esaurita dalla parola filmica e laddove le labbra non riescono ad arrivare ecco dunque intervenire lo sguardo.

“L’ordito di questo film è impreziosito, infatti, da sequenze liriche in cui ambienti e capi di vestiario ricoprono un ruolo attivo nella recitazione degli attori, fungendo da cassa di risonanza per le loro stesse emozioni”.

Capita dunque che Elio ― riflesso nella “straordinaria normalità” di Timothée Chalamet ― scivoli nella stanza di Oliver ― il cui fascino statuario prende invece le sembianze dall’altrettanto convincente Armie Hammer ― e che, gettatosi sul letto, mimi appena alcuni gesti erotici immergendo il capo nel costume da bagno dell’usurpateur e respirandone l’essenza, in un’immagine carica di desiderio e frustrazione.

Nella sensualità di questo gioco adolescenziale, le tonalità cremisi del malizioso tessuto sembrano quasi ritrarre l’imbarazzo pudico che scalda il volto del giovane, riuscendo a offrire al contempo una vibrazione di nostalgica sospensione, resa ancor più tangibile dalla pulizia di un capo dal taglio corto e squisitamente retrò.

A Million Steps

Musa di quest’epifania stilistica è Giulia Piersanti, già designer di Céline, Balenciaga e Missoni, chiamata da Guadagnino a ricreare un look capace di rifuggire i cliché degli anni ’80 per restituirne, invece, una più intima e delicata raffigurazione.

“Come la penna di Aciman, tra le cui pagine Elio cerca di intuire i sentimenti di Oliver osservandone le cangianti nuance dei costumi, anche il film propone una luminosa sfilata di capi dai colori pastello”.

Ricercando pezzi vintage e creandone di nuovi per l’occasione, rovistando tra gli album famigliari e sfogliando fra gli scatti americani di Bruce Weber, gustando le estati dipinte da Eric Rohmer e componendo una tavolozza di fresca sensualità, la costumista ha così tracciato le linee di uno stile casual e senza tempo, accompagnando le polo Lacoste di Elio con occhiali Ray Ban Wayfarer Classic e le ondose camice Ralph Lauren di Oliver con un paio di shorts Adidas i cui centimetri di stoffa decrescono con l’accentuarsi dell’abbronzatura e del desiderio.

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Ciò che ne deriva è un affresco di genuina eleganza, dove ogni abbinamento, persino il più (apparentemente) sbadato, risulta funzionale alla storia se non addirittura in grado di nobilitarla.

“Anche un paio di Converse sgualcite può sedurre l’occhio dello spettatore e rivelare una bellezza altra, più profonda e spensierata”.

Non solo l’abbigliamento, tuttavia, ma altresì gli spazi della residenza dei Perlman dialogano con il pubblico, a partire dalla scelta registica di ambientare le vicende nello scrigno di Crema anziché esporlo all’orizzonte ligure del romanzo.

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Custodita nella campagna lombarda, infatti, Villa Albergoni confida allo spettatore una vita più profonda ― in cui la schietta e riservata quotidianità rurale incontra le ombre del passato fascista e della contemporaneità craxiana ―, godendo poi dell’educato tocco dell’arredatrice Violante Visconti (nipote di Luchino Visconti), inappuntabile nel ricreare tra quelle spoglie mura secentesche le atmosfere antitetiche del nido familiare e del rifugio d’evasione.

“Non un luogo di ricchezza ma di storia, adatto tanto alla cultura quanto al tempo libero. Una casa viva e amata, accomodante seppur non strutturata, appesantita dagli anni e da una certa incostanza nella sua frequentazione ma, al contempo, arricchita dai ricordi di viaggio e dall’affetto di chi la abita”.

Tra il soggiorno e l’ufficio convivono poltrone ricoperte da tessuti di cotone indiano, un pianoforte di fine Ottocento, stampe giapponesi e pile di vecchi libri, mappe provenienti da Piva Antiques e dalla Libreria Antiquaria Perini, vasi e verdi foglie di bambù.

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Se tali elementi testimoniano di quell’unità domestica che troverà pieno compimento nello splendido monologo finale cullato tra la seduta rosa di un divano shabby-chic dal padre di Elio ― un immenso Michael Stuhlbarg ―, il bagno condiviso dai ragazzi e l’esterno della casa suggeriscono invece un’intimità ben più peccaminosa.

“La toilette ― stile anni ’30, piastrellata di un blu pallido ― adotta, infatti, i contorni metaforici di uno spazio in cui nudità fisica ed emotiva si confondono, mentre la particolarissima piscina esterna ― ingegnosamente ricavata da un preesistente abbeveratoio ― altera il voltaggio di una carica sessuale latente e pruriginosa, pronta a divampare tra le fronde di un giardino che si fa frutto proibito”.

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Foto ufficiali del film di Sony Pictures Classics
redits

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