Niente led, open space o insegne luminose ma una semplice vetrina, e una finestra proprio accanto. Sulle vetrate, incise parole di un passato lontano: “bicicli”, “istrumenti”, “velocipedi”. In alto, invece, un nome che il tempo ha conservato intatto: Officina meccanica Edoardo Bianchi.
Nel cuore di Milano, a due chilometri e 133 anni di distanza da quell’ultimo avamposto sul futuro che è oggi il Bianchi Café & Cycles di via Cavallotti, nel 1885 un umile negozio apriva le porte a un sogno fattosi storia. Dello sport, della bicicletta e della società italiana.
In via Nirone 7, ancor poco più che ventenne, il piccolo fabbro Edoardo Bianchi era già animato da grandi idee. Nato da una povera famiglia milanese, è rimasto orfano del padre Luigi a soli quattro anni, e dopo averne trascorsi altri quattro nell’orfanotrofio dei “Martinitt”, inizia prestissimo a lavorare come fabbro ferraio presso un artigiano per poi girare, fino alla maggiore età, per altre varie officine meccaniche della città. Anni duri ma preziosi.
In via Nirone, Bianchi comincia producendo biciclette e, insieme, cuscinetti a sfera, strumenti chirurgici, campanelli elettrici e molto altro ancora. Sa mischiare con sapienza artigianale le proprie intuizioni alle innovazioni del suo tempo, tanto che diede luce ai primissimi esemplari di bici moderna. Alla catena introdotta dal francese Vincent e alle gomme pneumatiche dello scozzese Dunlop associa l’idea di pedali più bassi e ruote di diametro inferiore. Ne esce un piccolo capolavoro.
“Attenzione estrema alla qualità e sguardo teso al futuro, imperativi rimasti saldi anche quando, ben presto, la produzione si apre a motocicli e autovetture”.
Via Nirone, via Bertani, via Borghetto, via Nino Bixio, poi Viale Abruzzi: nei primi vent’anni di lavoro sede e acciaio si spostano per la città assecondando progetti e successo del giovane Edoardo spingendosi fino alla corte della Regina Margherita.
Nella Villa Reale di Monza, Bianchi realizza per lei nel 1895 la prima bicicletta da donna, insegnandole poi anche come cavalcarla. Divenuto “fornitore della Real Casa”, si fregia sui propri prodotti dello stemma rosso-crociato dei Savoia e tra Milano, Roma, Bologna e Parigi i suoi modelli si guadagnano innumerevoli riconoscimenti, in prima fila nelle fiere e nelle esposizioni nazionali e internazionali.
La crisi del 1907 mette in ginocchio molti piccoli artigiani e imprenditori; non lui però, che durante la Prima Guerra Mondiale fornisce addirittura bici e motocicli all’esercito soddisfacendo le richieste di un’imponente produzione bellica.
“Il prototipo di bicicletta pensato per i soldati e da utilizzare fuori strada, dalle Alpi fino ai deserti africani, rappresenta l’antenata della cosiddetta ‘mountain bike’, vera prefigurazione dei modelli contemporanei”.
È da allora che l’azienda inizierà a seguire binari definiti, puntando sulle due ruote e optando, invece, per una produzione automobilistica non di massa. Ma più che i re, le influenze politiche o gli impressionanti numeri di vendita, a contribuire a costruire la leggenda della Bianchi sono stati i miti dello sport.
Dapprima quasi per caso, poiché nelle competizioni il giovane Edoardo vedeva il modo migliore per collaudare le nuove soluzioni tecniche prima di immetterle in produzione. Poi, nel corso degli anni, sempre più acceso dal motore della passione.
Tazio Nuvolari e Alberto Ascari sono stati i campioni che hanno legato il proprio nome alla Bianchi sulle quattro ruote ma, a tramandare nei decenni quel marchio, sono stati soprattutto gli intramontabili eroi del ciclismo.
In un’Italia impoverita e appiedata dal dramma dei conflitti mondiali, la bicicletta si rivela mezzo quotidiano di mobilità e lavoro e al contempo strumento di riscatto sociale, porta maestra verso la gloria.
“Fausto Coppi rappresenta, emblematicamente più di ogni altro, il fuoriclasse capace di segnare un’epoca con il marchio indelebile del sudore e della vittoria, protagonista di imprese scolpite nella memoria, forgiate nella fatica e accompagnate da quelle due ruote simbolo di forza e leggiadria”.
La rivalità con Bartali accende d’entusiasmo l’Italia intera. Strappato alla Legnano, dove nel 1940 aveva vinto il suo primo Giro, il Campionissimo nei suoi quindici anni di carriera in Bianchi riscrive la storia di questo sport.
Nel 1947 il titolo di Campione del Mondo dell’inseguimento e il suo secondo Giro d’Italia, quindi, nel 1949, l’epica conquista del Tour de France. Caduto nella tappa di Saint Malò e a un soffio dal tempo massimo consentito, ormai dato da tutti per sconfitto recupera più di un’ora sul leader francese Marinelli e s’impone infine su Bartali, secondo a undici minuti.
In quell’anno è il primo a imporsi tra Giro e Tour ― doppietta allora ritenuta all’unanimità impossibile ― e corona poi la stagione da Campione del Mondo dell’inseguimento. Nel 1952 un’altra accoppiata Giro-Tour e nel 1953 il sigillo sul suo quinto trionfo in maglia rosa. Vittorie divenute oggetto di racconti popolari, letterari, cinematografici, indimenticabili per lo stile che aveva accompagnato quei successi.
“Un uomo solo al comando… la sua maglia è bianca e celeste… il suo nome è Fausto Coppi”, dice Mario Ferretti nella radiocronaca della tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949.
Già, il celeste. Il classico “celeste Bianchi” ― più simile in realtà a un verde acqua, in una tonalità di colore comunque cambiata nel corso degli anni ― in questi lunghi 133 anni ha dipinto, prima e dopo Coppi, l’epopea di Girardengo, Gimondi, Pantani, Bugno e innumerevoli altri campioni. Dodici Giri d’Italia, tre Tour de France e cinque Mondiali le stelle più luminose sul curriculum.
Bici e modelli tramandati ai posteri insieme ai propri condottieri, esempi di eccellenza tecnica tanto insuperabile da investirsi di un alone di sacralità immortale.
Lampi di un passato che rivive ancora oggi, tra affetto e nostalgia, sulle strade bianche dell’Eroica, la tradizionale cicloturistica che nelle bici e nell’abbigliamento d’epoca rievoca ogni anno, in ottobre, il fascino della storia delle due ruote, di cui la Bianchi è colonna portante.
Un autentico miracolo italiano nato tra vie centrali di una Milano che fu. Più semplicemente, ancora oggi e per tutti, l’Officina meccanica Edoardo Bianchi.