1958, Tom Ripley (Matt Damon) è un giovane americano ricco di talento nel canto, nel suonare il piano e nel riportare letteralmente in vita le persone grazie alle sue impeccabili imitazioni. Tom, tra le altre cose, è anche incline alla menzogna.
Il ragazzo accetta l’incarico da parte del padre del viscido e spaccone Dickie (Jude Law) di andare a recuperare il figlio in Italia dove si è stabilito con la bellissima ed eterea fidanzata, Margie (Gwyneth Paltrow).
La fascinazione di Tom per Dickie, a partire da un’iniziale e travolgente amicizia, acquisterà però ben presto i tratti morbosi dell’ossessione, trascinando la psiche del primo sull’orlo della follia e facendo precipitare tutti in un baratro senza via d’uscita. Tom:
“Beh, qualunque cosa tu faccia, comunque terribile, o dannosa, tutto ha un senso, nella tua testa”.
Appare tutto piuttosto chiaro fin dai titoli di testa, ne Il talento di Mr. Ripley, firmato dal compianto Anthony Minghella nel lontano 1999: il volto del giovane protagonista ― ragazzo tutto d’un pezzo, dalla faccia pulita, intelligente, brillante, insondabile ― è scomposto dalla grafica iniziale attraverso dei rettangoli simili ai celebri tagli di Lucio Fontana, che si intersecano tra di loro in una specie di danza fluida.
Una dissociazione, una segmentazione, una frattura, ma dai tratti morbidi e carezzevoli: qualunque cosa sia, un indizio che la dice molto lunga sul viaggio interiore cupissimo e raggelante, a dispetto delle ammiccanti apparenze, che il Ripley di Matt Damon, sulla carta innocuo e pieno di talenti, simpatico e alla mano, intraprenderà nel corso della vicenda.
“Un percorso agli inferi di sola andata, senza ritorno e forse senza futuro, a prescindere dalle conseguenze più o meno dirette, più o meno ritardate nel tempo e nello spazio”.
Anthony Minghella adatta l’omonimo romanzo di Patricia Highsmith, già portato sullo schermo nel 1960 (il film era Delitto in pieno sole, il regista Réne Clément) e lo illustra attraverso immagini dall’impatto classico, cariche di seduzione ma anche di eleganza composta e di soffuso, sottilmente mortifero erotismo.
La fotografia, le musiche e il décor de ‘Il talento di Mr. Ripley’, ambientato negli anni ’50 proprio come il successivo, ben più sperimentale ed estremo ‘Carol’ di Todd Haynes (altro adattamento da un libro della Highsmith), vanno anche loro in questa direzione, costruendo intorno al triangolo amoroso da cui parte il film una tensione labile ma costantemente sul punto di esplodere e di materializzarsi in tutta la sua urgenza.
In tal senso, Mr. Ripley è un film errante, apparentemente esangue, in virtù dei suoi scenari italiani da cartolina e forse anche da macchietta (celebre il piccolo ruolo di Rosario Fiorello), ma in realtà perfettamente raccordato con la sensibilità deragliata del talentoso Mr. Ripley: omino solo in apparenza qualunque, di modesta estrazione ma di elevate e sanguinose ambizioni, di atteggiamenti gentili ma di animo nero.
Un uomo che non c’è, per citare un bellissimo film dei fratelli Coen in bianco e nero incentrato anch’esso sul dolore e sul silenzio di una colpa con cui convivere quotidianamente, non importa se propria o altrui.
Ripley incarna perfettamente lo spirito del film di Minghella, incentrato su un viaggio all’estero che non è dinamico né tantomeno coincide con un percorso di evoluzione e di maturazione, limitandosi a portare all’estremo parossismo le ombre del suo artefice.
“Ingaggiato quasi per caso dal padre di Dickie e incastrato nel Belpaese da un crescendo inarrestabile di delitti e (mancati, rinviati) castighi”.
‘Il talento di Mr. Ripley’ è stato girato in moltissime location: New York, Roma, Penisola sorrentina, Procida, Ischia, Casinò di Anzio (per la scena sanremese), Venezia, Napoli, Monte Argentario, Teatro San Carlo di Napoli, Livorno, perfino la Chiesa della Martorana a Palermo.
Ma a contare, più dei luoghi, è la stasi preoccupante del suo protagonista, rigorosamente macchiata di sangue. Così dentro al suo tempo e così vicina al nostro.