Quando si parla di calcio, per descrivere brevemente una partita terminata con molte reti chiunque userebbe termini come incredibile, mirabolante, al massimo strabiliante. Chiunque tranne una persona, che anni fa rispose così a una domanda su una partita con molte realizzazioni:
“I molti gol non fanno mica spettacolo. Molti gol fanno vedere gli errori di difese troppo larghe”.
Questa persona è Gianni Brera, uno tra i più importanti giornalisti sportivi nella storia della carta stampata italiana. L’importanza ancora attuale di Brera è dovuta a un insieme di fattori, come la sua capacità di inventare un nuovo gergo calcistico ― a lui si devono a esempio i termini centrocampista e goleador ― tuttora utilizzato, oppure quella di far appassionare alle sue cronache sportive anche persone che normalmente non nutrivano particolare interesse per il gioco del calcio.
“Il giornalismo sportivo ha una funzione sociale importante. Ogni italiano è potenzialmente un analfabeta di ritorno e se è lo sport a indurlo a leggere, evviva lo sport e il giornalismo sportivo!”
Il “Principe della Zolla” ― modo in cui si autodefinì Brera per il suo estremo legame con la terra natia, la Bassa pavese ― mostrò fin da subito questa sua naturale capacità di narrare il calcio, infatti già nel 1937, sulle pagine del Guerin Sportivo, a soli diciotto anni, iniziò a scrivere con successo della Serie C italiana.
Questo incipit di carriera venne sfortunatamente interrotto dalla Seconda Guerra Mondiale, a cui Brera partecipò prima come parà e poi come partigiano, ma fortunatamente al termine del conflitto poté ricominciare a scrivere di sport, questa volta però per la Gazzetta dello Sport.
Qui iniziò a farsi notare parlando di atletica leggera ― il suo primo articolo titolava “Atletica e dinamismo storico” ― con il suo solito stile, ma fu con il Tour de France del ’49 ― vinto da Fausto Coppi ― che raggiunse un’incredibile notorietà, facendo vendere un’enorme quantità di copie al giornale e conquistando di conseguenza la poltrona di Direttore del giornale in rosa.
“La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta”.
Da questo momento si può dire che iniziò effettivamente la carriera giornalistica del Brera narratore di novelle calcistiche, perché da direttore della Gazzetta si dedicò soltanto al suo più grande amore sportivo, il calcio, che insegnò nei minimi dettagli ai suoi lettori e di cui ebbe per sempre una visione molto personale e particolare.
Per lui, ad esempio, lo spettacolo non era legato ai gol e alle giocate personali ma al gioco, più precisamente all’organizzazione in campo. Per Brera, come per un allenatore del tempo di nome Annibale Frussi, il risultato perfetto era lo 0-0.
“Abbiamo appurato che tre uomini in linea in difesa non bastano, e che per il nostro standard atletico e tecnico dobbiamo involvere alle formule degli anni ’30, quelle che ci hanno dato maggiori soddisfazioni”.
Un altro esempio di questa particolare visione calcistica era il suo parere sul calcio all’italiana. Per Brera, tramite le sue conoscenza culturali e di atletica, gli sportivi italiani non erano in grado di competere fisicamente con gli stranieri. Non era possibile batterli in velocità, forza o dinamismo, serviva quindi adottare un’altra strategia: difendersi ordinatamente per poi ripartire in contropiede.
Esempio perfetto di tale idea fu Il paròn, al secolo Nereo Rocco, grande allenatore del Milan ― e non solo ― negli anni ’60 e ’70, che proprio per questa uguale visione calcistica divenne un amico stretto, se non quasi famigliare, di Gianni Brera.
Proprio i rapporti d’amicizia molto stretti furono una delle caratteristiche principali del giornalista pavese, che oltre a essere un grande narratore di calcio fu anche un amante incondizionato dell’enogastronomia italiana, anzi, lombarda.
Questa distinzione è obbligatoria, perché oltre alla particolare visione calcistica Brera ebbe anche una personalissima interpretazione della cultura culinaria italiana, che egli reputava praticamente lombardo-centrica.
Queste convinzioni, sia calcistiche che enogastronomiche, il giornalista pavese le portò sempre con sé, non cambiando mai la sua opinione. Non è infatti un caso se l’arrivo di Arrigo Sacchi nel mondo del calcio italiano, che coincise con una completa rivoluzione tecnico-tattica, fu per Brera il segnale che il suo sport preferito era cambiato, che ormai pensare a un calcio difensivista e poco spettacolare ― inteso come spettacolo di gol e giocate personali ― non era più possibile.
“Bacco è un dio che è sempre vivo in me, e ho sempre degli altari ovunque vada sui quali lo venero”.
È da questo momento che l’amore di Brera per il calcio iniziò ad affievolirsi. Ormai lo sport che aveva permeato ogni secondo della sua vita non era più riconoscibile, era diventato qualcosa di alieno ai suoi occhi.
Proprio per questo motivo, ormai privo della sua più grande passione, si dedicò ai suoi altri grandi amori, ossia la cucina e la convivialità, fino al suo ultimo giorno, il 19 dicembre 1992, quando proprio dopo una delle tante cene con gli amici perse la vita in un incidente stradale.
Ormai sono passati quasi venticinque anni dalla sua scomparsa, ma tuttora il suo ricordo è forte, questo grazie anche all’Arena Civica di Milano a lui intitolata nel 2002. Perché tutta questa riconoscenza?
Semplice. Brera durante la sua carriera ha saputo raccontare in modo unico le vicende sportive del calcio italiano, creando con il suo linguaggio le fondamenta dell’odierno giornalismo sportivo.
Ma, soprattutto, è riuscito a svolgere una funzione sociale, mantenendo vicini alla lettura ― e anche in parte alla cultura letteraria ― una parte del popolo italiano, definito dallo stesso Brera come “analfabeti di ritorno”, che difficilmente avrebbe letto un racconto o un giornale. In poche parole, Gianni Brera è stato il maestro ed educatore di milioni di italiani per più di 40 anni.