Basta solo il nome per evocare ricordi che sono scolpiti nella memoria della storia sportiva italiana. Valentino Mazzola era il centrocampista più forte della sua epoca, era il Capitano del Torino, era, in fin dei conti, il Grande Torino.
Valentino Mazzola è stato addirittura più un simbolo che un formidabile calciatore, il che è tutto dire. Nato nel 1919 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano, si affacciò al calcio che conta con la maglia del Venezia che lo acquistò, formalmente, dalla squadra dell’Alfa Romeo, militante in Serie C. Di lui, Il giornalista Gianpaolo Ormezzano scrisse a lungo ne La Stampa nel maggio del 1989:
“Quando Barassi, durante l’orazione funebre, lesse la formazione, ci fu come sempre, anche in lui, un modo diverso di dire ‘Mazzola’”.
Per capire quale fosse la personalità e la mentalità di Mazzola, basti pensare che nel momento in cui ricevette l’offerta di lavoro come meccanico all’Alfa Romeo ― e il posto nella squadra aziendale ― Valentino ricevette un’offerta dal Milan.
Ai tempi poi, il nome venne italianizzato in Milano, con la possibilità ― forse più con la speranza ― di arrivare forse un giorno in Serie A. Ma che Mazzola, dopo averci pensato per qualche tempo, rifiutò:
“È stato molto meglio aver scelto l’Alfa Romeo; se fossi andato al Milano avrei percepito lo stipendio, allora assai notevole, di 100 lire mensili e non avrei lavorato. Meglio assai lavorare: con l’ozio c’era il pericolo di rovinare la mia passione, veramente sana, per il calcio e per la mia carriera”.
Nel 1939 viene acquistato dal Venezia che scoprì il talento di Valentino Mazzola grazie ad alcuni suoi osservatori che rimasero incantati dalle sue doti mostrate in alcune partite giocate nella squadra del Comando della Marina, il corpo armato dove Mazzola stava svolgendo il proprio servizio militare in quel di Venezia.
L’anno successivo, dopo un periodo con la squadra riserve, avviene il suo esordio nella massima serie; la cosa curiosa è che Mazzola agli albori della sua carriera veniva schierato un po’ ovunque in campo, ma principalmente come attaccante.
La svolta della sua carriera avviene nel campionato successivo, quando grazie a un avvicendamento sulla panchina dei lagunari, Mazzola iniziò ad aumentare il suo minutaggio e ad essere schierato nella posizione di interno sinistro di centrocampo, ruolo che lo vedrà eccellere e lo porrà nell’Olimpo del calcio italiano.
Nel 1942 il Torino di Ferruccio Novo acquistò Valentino Mazzola per la cifra monstre di un milione e duecentocinquantamila lire insieme al compagno di squadra Ezio Loik, andando così a formare l’ossatura del centrocampo di quello che in seguito sarebbe diventato il Grande Torino e mettendo le mani sul primo scudetto della storia granata. Sempre Ormezzano:
“Valentino Mazzola era il Grande Torino. Nessuna offesa a nessuno se si dice che gli altri, tutti gli altri, compreso Maroso dalla classe immensa, erano calciatori che avevano la fortuna di giocare con lui”.
Da quel momento partì un periodo di dominio da parte del Torino di Mazzola che vinse cinque campionati dal 1942 al 1949, con l’eccezione di quelli non disputati, ovviamente, a causa della II Guerra Mondiale.
Valentino Mazzola era il cardine di quella squadra; un regista dalle spiccate doti offensive ― più volte si laureò capocannoniere ― che capitanava un undici in grado di dominare ogni avversario.
Celebre in tal senso la nascita nel campionato 1945-46 del famoso quarto d’ora granata, un momento di furia sportiva preannunciato da un triplice squillo di tromba dalle tribune e dal fatto che Mazzola davvero si rimboccasse le maniche, in cui il Torino mostrava agli spettatori come potesse in poco tempo sconfiggere qualsiasi avversario, limitandosi poi, una volta in vantaggio, a controllare la partita.
Valentino Mazzola e la sua squadra furono un simbolo per un paese devastato dalla Guerra e che vedeva nelle loro imprese sportive sia una piacevole distrazione che un esempio da seguire di tenacia e di voglia di vincere.
“D’altronde, i primi a parlare così erano loro, i giocatori granata. Era Mazzola che guardavano quando, poche volte, perdevano, era da lui che andavano quando un gol, anche segnato da un altro, faceva vincere la partita”.
Il 4 maggio 1949 il volo che stava riportando a Torino la squadra, lo staff tecnico e i giornalisti al seguito, a causa della scarsa visibilità, si schiantò contro la Basilica di Superga, senza lasciare sopravvissuti.
In quell’incidente oltre alla perdita di 31 persone, uomini e ragazzi, lo sport italiano vide spazzato via in un sol colpo il suo simbolo, la squadra più forte di tutte, quella che componeva i 10/11 della Nazionale di calcio e, forse, vide sparire anche qualche speranza di un futuro più roseo. Solo il Fato li vinse.