La polo alla Panatta

Author Guido Luciani contributor
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Calendar 09/04/2018
Time passed Tempo di lettura 2 min

La storia l’ha incoronata regina dei capi ibridi, dei mix apparentemente stravaganti dotati di quel magico potere di diventare grandi classici alla loro prima uscita pubblica. La storia le ha regalato un successo esplosivo immediato, caso quasi unico nella lunga vita della moda.

“E non c’è voluto molto tempo: meno di un secolo e la storia era già stata scritta”.

L’avete capito, stiamo parlando della polo, quella fusione perfetta tra una t-shirt e una camicia, che dalla prima mutua la morbidezza ed il comfort dei tessuti e dalla seconda l’eleganza di colletto, bottoni e, alle volte, anche il taschino sul petto.

Icona dell’abbigliamento casual e informale, con un’anima classica iscritta nel suo DNA, la polo è un capo dalla versatilità ineguagliabile.

E non è un caso che la sua origine sia sportiva, contesa tra il gioco del Polo (già alla fine dell’800 si usava una maglia a maniche lunghe dotata di colletto e bottoni) e quello del tennis con la famosa discesa in campo del campione francese René Lacoste che, nel 1926 agli US Open, lasciò a bocca aperta avversari e pubblico (fino ad allora si giocava in camicia).

Il segreto del successo era dovuto a quel tessuto traspirante, quel piqué di cotone che, mixato con gli aspetti formali tipici della camicia, resta, ancora dopo un secolo, il suo principale punto di forza.

“L’evoluzione, se ci pensate bene, è stata minima: piccole, impercettibili variazioni che, di fatto, hanno lasciato quasi immutata la prima polo di René Lacoste”.

In Italia il successo della polo, oltre ad essere legato a brand storici, amati ed imitati in tutto il mondo, è strettamente connesso ad un fenomeno degli anni ’70, quel fenomeno che porta il nome, il carisma e l’eleganza, dentro e fuori dal campo, del principe del tennis made in Italy: Adriano Panatta.

A Million Steps

Primo sportivo non appartenente al mondo del calcio a diventare un eroe nazionale, con una fama alla stregua di una pop star, primo italiano a sollevare i trofei più importanti dei circuiti tennistici, incarnava l’estetica del bravo ragazzo, a metà tra un attore dei fotoromanzi e un rampollo della Roma bene.

“In quegli anni tutti volevano il ciuffo ‘alla Panatta’, le scarpe ‘alla Panatta’. Ma, soprattutto, volevano le polo ‘alla Panatta’”.

Per Adriano la polo non era solo comodità in campo, era anche eleganza fuori dal rettangolo di gioco. Accompagnata da una giacca diventava un cult delle sue uscite mondane, quelle in cui non c’erano occhi che per lui. E per le sue compagne di vita.

Ed era anche un messaggio. Come quella volta in cui, nella finale di Coppa Davis giocata in Cile, sfidò il sanguinario regime del dittatore Pinochet, sfoggiando una polo rossa. Che più rossa non si poteva.

“Fresca di bucato, attillata come andavano allora; ma rossa, decisamente rossa ― si legge nella sua autobiografia ― Tanto rossa da far esclamare Paolo Bertolucci, il mio compagno di doppio: ‘Io me la metto, ok, ma tu sei matto!’”

E matto, in senso buono, lo era davvero. Istrionico, disinvolto affascinante, carismatico, non ha mai smesso di indossare le sue “preziose” polo, neanche dopo aver abbandonato a trentatré anni, per sempre, il campo di gioco.

Perché, e questo lo si legge ovunque, la polo sta bene a tutti, sta bene sempre. E un po’ è vero.

È tutto un fatto di tessuti ― il piqué di cotone è l’unica garanzia assoluta ― colori e abbinamenti ― i classici sono ideali quando si parla di lavoro, ok anche ai colori più audaci ma sempre e solo su tinte neutre ―, di linee ― quelle del corpo, da rispettare, sempre ― e di righe ― quelle della maglia, accettabili solo in contesti davvero casual.

“È tutto un fatto di disinvoltura. Come quella di Panatta. Anzi, per dirla nel modo giusto, ‘alla Panatta’”.

Foto in apertura di ROMANO GENTILE/A3/Contrasto e foto nel testo di Perrucci/RCS/Contrasto
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