L’eleganza è una delle eredità più forti che Pier Paolo Pasolini ha lasciato in dono alla nostra tradizione culturale, ma anche una delle qualità meno ricordate quando si parla dell’arte del regista, poeta e letterato di Casarsa, tra i massimi interpreti del Novecento, dei suoi valori e disvalori, della sua cultura.
Pasolini fu maestro d’eleganza nei suoi scritti (“scarna, sincopata, ma non priva di eleganza”, definisce la sua prosa Marco Belpoliti) ma anche negli atteggiamenti pubblici, nelle pose mediatiche, nella coerenza della propria poetica e del suo immaginario.
“Il suo modo di esprimersi era avvolgente e delicato, una parlata fluida e brillante alla quale contribuiva senz’altro quella voce debole e bassa, esile ma sempre carica di sfumature e tonalità”.
Lo spessore intellettuale che Pasolini ostentava non era semplice altezzosità o pretesa snobistica di superiorità, ma anzitutto un’elegantissima idea di curiosità e di dignità: curioso e dignitoso, sopra ogni cosa, era infatti il modo in cui il regista e scrittore si confrontava con i propri interlocutori; in particolare con quel proletariato romano al quale dedicò le pagine più intense e scomode della propria arte.
Romantico e ideologico, appassionato e mai conciliante, Pasolini sapeva unire chiarezza e simbolismo, dolcezza e crudeltà, astrazione e carnalità. La sua eleganza stava anche nella sintesi di tutti questi aspetti, molto più che nel look decadente fatto di maglioni a collo alto e nel mistero carico di fascino offerto da quegli occhiali scuri e soprattutto da quei lineamenti unici e scolpiti, simili a quelli di una statua greca.
C’è chi, come Paola Colaiacomo, a proposito di Pier Paolo Pasolini ha parlato di eleganza “faziosa”, ovvero di una raffinatezza intollerante, sprezzante, che non ammette mezze misure. Ma l’oggetto di tale aggettivo, più che Pasolini stesso, è ciò che lo circonda e che egli stesso non manca di osservare col suo sguardo critico e pungente di grande indagatore dei costumi nazionali e degli usi borghesi dettati dalle convenzioni sociali.
È un’eleganza chiaramente moralista, quella di Pasolini, perché lui per primo fu un moralizzatore in grado di distinguere in maniera affilata il giusto dallo sbagliato, l’etico dall’anti-etico, il naturale dall’innaturale. Nel 2015 Italo Moscati scrive di lui come:
“Qui un uomo ancora giovane, con la voce e i gesti suadenti del profeta, parlava modulando le reazioni del suo pubblico come se fosse un’orchestra”.
Le sue conclusioni possono apparire oggi brutali e tremende (il rifiuto della scuola pubblica, ad esempio), ma la coerenza e la pulizia dello stile di Pasolini e della sua forma espressiva rimangono delle finezze che invitano ad essere attivi, stimolati e fortemente critici, sul proprio operato e su quello del mondo che circonda ognuno di noi.
“La vitalità e l’eleganza di Pasolini, insomma, erano contro la banalità dello stereotipo e il buongusto conformistico di una società livellata”.
Il suo recupero della popolarità più viscerale è in questo senso un enorme esercizio di grazia e di armonia, di verità e di giustizia, contro qualsiasi modello culturale feroce e guidato dall’alto che tenti di imporre un’eleganza fasulla e di superficie, sia essa incarnata dal capitalismo di bocca buona della borghesia e dei suoi jeans filoamericani o dalle sciarpette rosse dei bambini romani, magari non ancora adolescenti.
L’eleganza Pasolini l’ha perseguita per tutta la vita: più che un’eleganza da dandy annoiato, una ricercatezza da affinare continuamente, da inseguire, da mettere sempre in discussione, come testimonia fino in fondo anche nel suo romanzo ‘Petrolio’, massimo e più incompiuto laboratorio e cantiere aperto della scrittura pasoliniana.