Lo stile ai tempi di Mediterraneo

Author Marco Colombo contributor
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Calendar 06/08/2018
Time passed Tempo di lettura 3 min

Giugno 1941. Un manipolo di soldati italiani ― sbandati riacciuffati qua e là, richiamati dai vari fronti del Secondo conflitto mondiale ― viene inviato in Missione Oc (Osservazione e collegamento) sull’isola di Megisti, una mollica di roccia fra le pieghe ondose dell’Egeo.

Inizia così una fra le più vive e malinconiche illusioni del Cinema italiano degli anni Novanta: Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores.

A Million Steps

Celebrata con l’Oscar al Miglior film straniero ― inaspettatamente strappato al capolavoro d’Oriente Lanterne rosse di Zhang Yimou ― e prontamente insignita dell’etichetta di opera cult, la pellicola affronta con trasognata eleganza le debolezze di una generazione tradita (quella dell’autore stesso, figlio delle disattese speranze sessantottine) filtrandole attraverso la lente di una generazione ingannata (quella dei nostri nonni e di una gioventù dispersa dal regime).

Concetti complessi, insomma, che solamente i panni della commedia hanno saputo mascherare da sorrisi. Metafore che in tempi passati si sarebbero affrontate attraverso dialoghi; sopra i massimi sistemi o, perché no, con un islandese. Dialoghi che, tuttavia, non mancano neppure nella nostra storia e che, come spesso accade, non sono fatti di sole parole.

“Dialogo I o dell’intelletto: Avevamo tutti più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo”.

Voce narrante del film, il tenente Raffaele Montini incarna l’ingrediente razionale di un arcipelago umano in balia di un destino che, in fondo, non si sente mai davvero proprio.

Non stupisce quindi che sia lui ― serafico insegnante di latino e greco, costretto a indossare la divisa del conquistatore straniero ― a farsi carico di sostenere il confronto con il principale esponente dell’intellighenzia indigena: il pope.

A Million Steps

L’affabilità della loro relazione è educata dalla cultura di cui entrambi sono nutriti ma più che a livello verbale l’intesa fra i due si cesella sul piano visivo.

Il loro è un lieto incontro fra spiriti affini e se significante e significato si rispecchiano sin dal principio nella figura liturgica del chierico ellenico ― indicizzata per tradizione dall’exarasson (veste talare) e dal kamilavkion (copricapo tipico dei presbiteri ortodossi) ― le mostrine esibite dal tenente Montini celano, invece, una natura altra.

Ecco dunque che, per ogni grano del komboloi (rosario ortodosso) scosso dal monaco il militare italiano perde uno dei suoi orpelli, abbandonando il grigiore dei panni marziali e la cameratesca bustina per tornare alla propria vocazione libera e civile, indossando larghi camicioni di lino e copricapi ameni.

“Dialogo II, anche detto dell’amore: qual è la cosa più bella sopra la terra bruna? Uno dice ‘una torma di cavalieri’, uno ‘di fanti’, uno ‘di navi’. Io, ‘ciò che s’ama’”.

Antonio Farina è un giovane uomo, vergine della vita e orfano del mondo, che troverà la propria ragion d’essere fra le labbra di una prostituta: Vassilissa. È per lei che il minuto attendente intona i versi di Saffo e di Alcmane; è per lei e per i suoi larghi occhi scuri che il respiro gli si strozza e la voce comincia a tremare.

Sguardo ferino e capelli corvini, la donna si fa madre, amante e soprattutto amore, tradendo la volgarità della propria professione sin dalla sua prima apparizione in scena.

A Million Steps

A incorniciare le sue forme mediterranee, infatti, non sono tessuti carmini e sfacciati, bensì una veste leggera, di cotone blu, con con enormi fiori lilla appuntati qua e là. Aperta denuncia di un animo ben più delicato.

Ingentilito dalla sua presenza, persino il talamo su cui accoglie i propri clienti respinge i peccati della contrattazione di tale bellezza. E sulle lenzuola di un bianco virgineo spunta così una rosa ricamata; lo stesso bocciolo il cui stelo, riscaldato dal sole del meriggio, affonda in una brocca di cristallo posta sul comodino.

“Dialogo III, sulla società: Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni? Perché penso che è passato un altro giorno. Dopo mi commuovo, perché penso che sono solo”.

Con la pelle annerita e l’animo ristorato, la truppa adotta ben presto i ritmi dell’isola e dei suoi modesti abitanti, rifuggendo volentieri le domande di un universo che pare ormai averli dimenticati e, a sua volta, esser stato scordato.

Dell’intero drappello solo il sergente maggiore Nicola Lorusso, pur sedotto da quell’eden greco, sembra bramare il ritorno al fronte e alla Patria.

A Million Steps

Unico ad aver osteggiato il nemico nella campagna d’Africa, Lorusso conserva ancora la frenesia del mondo inurbato, una voracità d’azione appena sopita dalle carezze della nuova vita isolana, che pur sembra trarlo a sé nella giostra tribale del sirtaki zorbas ― danza popolare che deve il proprio nome non ai capricci della tradizione locale, bensì a un film, Zorba il greco (1964), di Michael Cacoyannis.

Frettolosamente richiamato alla realtà dai soccorritori inglesi, il sergente poserà così senza esitazione i morbidi pantaloni alla turca e i gilet sbottonati per vestire invece gli abiti del mito rifondatore, pronto a servire un Paese le cui promesse di nobiltà, tuttavia, saranno presto nuovamente disattese in un’ultima, malinconica illusione prima del ritorno al sogno: la fuga.

“Avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice”.

Foto ufficiali del film di The Movie DB/LongTake
redits

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