L’utopista mancato Adriano Olivetti

Author Marco Colombo contributor
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Calendar 15/01/2018
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Imprenditore illuminato, intellettuale poliedrico, socialista liberale, urbanista, filantropo, editore, saggista e riformatore culturalmente vorace. Risulta complesso trattenere in un’unica sfumatura il genio umano e industriale di Adriano Olivetti, l’uomo capace di scuotere con la propria avanguardistica visione non solo il borgo rurale d’Ivrea ma l’Italia intera, sbalordendo un mondo che, stranito e stupefatto, ne scrutava l’abbagliante creatura.

“Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi; perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”.

Con queste parole, nel 1932, Camillo Olivetti nominò il figlio Adriano, ingegnere chimico poco più che trentenne, direttore generale della Olivetti, azienda leader nel campo delle macchine da calcolo e per scrivere, da lui fondata ventiquattro anni prima.

Nutrito dall’etica paterna e incuriosito dal modello fordista, il giovane Adriano procedette ben presto alla definizione di un proprio e personale modello d’impresa, capace di coniugare nozioni tecniche e cultura umanistica, referenze globali ed “etimologia” locale.

Superate le traversie personali e storiche del secondo conflitto mondiale, l’utopia concreta di Olivetti iniziò così a prendere forma nel dopoguerra, quando l’ingegnere cominciò a praticare una capillare opera di rinnovamento che coinvolse corpo e anima della fabbrica piemontese.

“L’architettura è la forma in cui si esprime una certa società, le altre arti, invece, sono un’espressione libera, una manifestazione dello spirito umano indipendente dal tempo e dal luogo”.

Dopo aver commissionato, sul finire degli anni Trenta, a Luigi Figini e Gino Pollini la progettazione di un quartiere residenziale destinato ad accogliere le famiglie dei propri salariati e dopo aver provveduto alla realizzazione di un nuovo, monumentale edificio razionalista che andò a ospitare officine e uffici sempre più popolati, Olivetti decise, infatti, di eleggere suoi collaboratori figure assai distanti dalle abitudini industriali dell’epoca.

Ricercando la perfetta convivenza tra infrastrutture e paesaggio, oltre ad alimentare l’archetipica convivialità contadina di un ceto operaio ancora fortemente legato alle proprie origini rurali, le luminose vetrate degli stabilimenti Olivetti traducevano, di fatti, la volontà di gettare nuova luce su un contesto produttivo rigidamente ancorato al solo sapere ingegneristico.

Il critico letterario Geno Pampaloni, gli scrittori Ottiero Ottieri e Paolo Volponi e il poeta Giovanni Giudici presero così a sfilare ogni mattina di fronte a Boogie-Woogie ― il grande affresco firmato dal pittore Renato Guttuso e posto all’ingresso delle officine ― dopo aver superato inusuali colloqui, sviluppati attorno a curiosi esami grafologici.

“Una biblioteca da oltre cinquantamila volumi, lezioni di storia del movimento operaio, conferenze tenute da Pier Paolo Pasolini e da Alberto Moravia, festival cinematografici, mostre e concerti furono solo alcune delle offerte culturali promosse da Adriano Olivetti”.

Nonostante simili iniziative fossero da molti indicate come estrosità naif di un avventato utopista, l’ingegner Olivetti non perse mai di vista il fine capitalistico di un’azienda votata anzitutto al profitto. Adriano, fermamente convinto dell’esistenza di una relazione simbiotica fra industria e società, sosteneva semmai la necessità di rinnovare una metodologia produttiva la cui austerità gravava enormemente sul personale, limitandone persino la produttività.

Al contrario, offrendo salari fino al cinquanta per cento superiori rispetto alla media italiana, istituendo un sistema di isole di montaggio autonome, allestendo asili aziendali, garantendo nove mesi di maternità retribuita, limitando e rendendo flessibili gli orari lavorativi, la Olivetti vide i suoi guadagni maturare anno dopo anno insieme al suo prestigio.

“Funzionali, accattivanti, qualitativamente eccelsi e offerti a prezzi concorrenziali, gli articoli firmati Olivetti divennero presto delle vere e proprie icone del made in Italy, supportate da campagne pubblicitarie originali ed efficaci e confezionate dai più talentuosi designer del Belpaese”.

A Venezia, nello splendido Negozio Olivetti progettato dall’architetto Carlo Scarpa nel 1958, era così possibile acquistare la celeberrima Lettera 22, una macchina per scrivere portatile pressoché perfetta: peso inferiore ai quattro chilogrammi, cinque file di spalti su cui poggiavano educatamente quarantatré tasti a corsa lunga pronti a battere e a tintinnare su un nastro in tessuto di tredici millimetri, il tutto custodito dalle avvolgenti linee tracciate dalla matita del designer Marcello Nizzoli.

A Million Steps

Insignita del Compasso d’Oro 1954, eletta miglior prodotto del secolo secondo l’Illinois Institute of Technology e stabilmente esposta al MoMA di New York, la Lettera 22 è un prodigio dell’industria italiana, la massima espressione del gusto imprenditoriale di Adriano Olivetti, un utopista mancato.

“Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.

Foto in copertina e nel testo di Archivio GBB/Contrasto
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