Quando a Hollywood passava il Tevere

Author Beatrice Manca contributor
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Calendar 08/08/2019
Time passed Tempo di lettura 6 min

C’è stato un tempo in cui non era difficile incontrare Jean Paul Belmondo, passeggiando per le vie di Roma. Frank Sinatra suonava il piano al Caffè Doney, Ava Garder era una cliente fissa delle sorelle Fontana e di Capucci, e per tutti era d’obbligo avere almeno un paio di mocassini realizzati a mano da Salvatore Ferragamo in persona.

A Million Steps

Roma, tra gli anni ‘60 e ‘70, divenne l’epicentro del cinema e della mondanità. Cinecittà, la fabbrica dei sogni italiana, sfornava capolavori come Ben Hur e Guerra e Pace, richiamando il jet-set internazionale. Sono gli anni della Dolce Vita, sublimati per sempre da Federico Fellini nel suo celebre film: gli anni in cui tutta Hollywood era sul Tevere.

Tutto questo diede un’incredibile spinta alla creatività di sarti e artigiani.

Inaugurati nel 1937 dal regime fascista, gli studi di Cinecittà hanno sofferto – come il resto della città – la devastazione della guerra. Fu il cinema americano a far ripartire l’attività, spostando la produzione dei kolossal in Italia: pochissime tasse e ambientazioni mozzafiato, perfette per il genere del ‘peplum’, cioè le grandi produzioni storiche.

 

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Per quindici anni circa, tra gli anni ‘50 e la fine dei ‘60, i più grandi produttori, registi, dive si radunavano all’ombra del Colosseo. Roma è stata la capitale mondiale del cinema, e questo diede un’incredibile spinta alla creatività di sarti e artigiani: i locali si riempivano, aprivano boutique e atelier, la moda italiana si imponeva dall’altro lato dell’Oceano, conquistando gli Stati Uniti.

A Million Steps

Negli stessi anni, i registi italiani davano vita a un fenomeno completamente nuovo: il Neorealismo. Registi come Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, facevano scuola con i loro film girati in strada. Bastava guardarsi intorno per vedere ancora le macerie, fisiche e morali, del periodo bellico. Ma gli studi di Cinecittà permettevano di guadagnare qualcosa ai molti artigiani rimasti senza lavoro dopo la guerra: stuccatori, muratori, carpentieri e falegnami, capaci di realizzare in tempo di record le grandiose scenografie dei set cinematografici. Fuori dai teatri di posa facevano la fila barbieri, decoratori e un’infinità di comparse.

E poi, ovviamente, c’erano i sarti, che mettevano a disposizione un’artigianalità e una creatività impareggiabile: non solo i costumisti dei set, ma i couturier che vestivano le dive del cinema in trasferta. Per loro fu un decennio di straordinario fermento.

 

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«La sposa indosserà un abito di Schuberth.»

Negli anni ’50, tra Firenze e Roma, nascono atelier leggendari: le sorelle Fontana, che vestivano le attrici dentro e fuori dal set (come l’abito qui sopra, disegnato per Ava Gardner). Emilio Pucci, con le sue intramontabili stampe colorate. Ferragamo, che faceva le scarpe – fuor di metafora – a mezza Hollywood, inclusi Rodolfo Valentino e Charlie Chaplin. Emilio Schubert, “il sarto delle dive”, che tra le sue clienti vantava Gina Lollobrigida e Rania di Giordania, la principessa Soraya e Sophia Loren. I suoi abiti nuziali erano così famosi che le donne se ne vantavano sulle partecipazioni di nozze: “La sposa indosserà un abito di Schuberth”. Roberto Capucci e i suoi abiti-scultura: le sue creazioni finirono su Vogue America, e addosso a Marilyn Monroe.

 

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Il jet-set si dava appuntamento all’Excelsior e animava la vita notturna, per la gioia dei rotocalchi. Audrey Hepburn e Gregory Peck, girando per la città in Vespa, fecero desiderare a tutto il mondo le Vacanze Romane.

 

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Il film Cleopatra, che mandò quasi in rovina la 20th Century Fox, ma consacrò al mito l’amore tra Elizabeth Taylor e Richard Burton: una passione tormentata esplosa sul set, in costume, più scandalosa di quella tra la regina d’Egitto e il generale romano.

 

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Gli attori più pagati della storia, i più inseguiti dalle riviste scandalistiche: fu proprio questa caccia al vip a ispirare Fellini per il personaggio del paparazzo, che ha dato il suo nome a un’intera categoria di fotografi. Si appostavano fuori dai locali di Via Veneto, per catturare uno scatto di Burt Lancanster, o di Ava Gardner. E poco lontano, Frank Sinatra suonava il piano all’Harry’s Bar.

Un mondo scintillante, durato appena una decina d’anni, svanito presto ed entrato nel mito: col finire degli anni ‘60, finirono anche gli investimenti americani.

Ma ancora oggi, come si fa a guardare Fontana di Trevi senza vedere Anita Ekberg in acqua, che come una sirena in abito lungo, chiama Marcello?

Foto d’apertura di Archivio GBB/Contrasto.
redits

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