Quando i sogni viaggiavano su una Ferrari in pixel

Author Simone Crepaldi contributor
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Calendar 27/03/2020
Time passed Tempo di lettura 4 min

Estate 1990.

Non avevo nemmeno 10 anni e la scuola era terminata da poco, non c’erano molte cose da fare nella metropoli milanese per un bambino di quell’età e l’obbligo dei genitori improrogabile era “devi andare dai nonni!”. Lasciare la città e il caldo afoso per ritrovare gli amici che non vedevi e sentivi da un anno, lasciare il certo per l’incerto con in testa qualche dubbio: mi divertirò? Mi accetteranno di nuovo nel gruppo?

In radio sulla 127 celeste di mio padre verso le Marche trasmettevano a più riprese Sotto questo sole di Baccini e i Ladri di Biciclette. L’aria calda entrava dal finestrino e realizzai, in quel momento, che la mia estate stava davvero iniziando.

13 giugno 1990.

Sarebbe stata una lunga estate, quella dei Mondiali di Calcio in Italia, piena di emozioni contagiose, della mascotte Ciao, di grida di vittoria, ma anche di sconfitta. Uno schermo che sapeva unire le persone. Lasciai Milano proprio in quell’estate, quando ci fu l’esordio dell’Argentina a San Siro e il goal di Omam Biyik con Maradona sconfitto. Ed io l’avrei passata guardando le partite da televisori piccoli, niente stadio, niente Notti Magiche dal vivo.

Sala Arcade.

I primi giorni trascorsero lenti. Ero troppo timido per prendere il telefono e chiamare a casa quegli amici che non vedevo da un anno. Troppo caldo per stare in giro a zonzo nella speranza di incrociare qualche sguardo conosciuto. Tutto troppo complicato per un ragazzino in epoca pre-cellulare e social network.

Per fortuna c’erano i bar. Fino a quell’estate al bar potevo entrare solo per il gelato o una spuma ghiacciata, sempre e solo accompagnato dal nonno. Non potevo fermarmi o varcare la porta dei video giochi. La sala arcade. Era vietata. A noi piccoli eroi dicevano “meglio un pallone e la bici che quelle cose”. Forse avevano ragione. Forse.

Sarà stato per la mia faccia triste da bambino annoiato o forse per il modo in cui ciondolavo per casa… ma ricordo ancora quando mio nonno mi diede 500 lire e mi mandò al “caffè” a giocare alle “macchinette”. Così erano chiamate in dialetto le consolle, le infernali macchinette. Impugnai la monetina e corsi come nemmeno Mennea avrebbe fatto, nella mia testa intanto mi sentivo un po’ come Vasco: quel momento sanciva l’inizio di una Vita Spericolata.

100 lire.

Entrato al bar non sapevo però che fare e come comportarmi. Il fiatone non mi permetteva di parlare subito e nemmeno le idee, poche e confuse, mi diedero una mano. Chiesi di poter giocare indicando la Sala, quasi come un’anima candida chiede a San Pietro di poter entrare in Paradiso… insomma io stavo entrando in quello che pensavo essere un Paradiso per i grandi. Mi spiegarono che per giocare servivano monetine da 100 lire, che avrei dovuto cambiare i soldi e avrei potuto giocare. Stavo diventando uomo.

Out Run.

Non mi sembrò vero, 4 enormi armadi con uno schermo dentro fatto di mille colori e suoni… 4 giochi, 4 avventure, 4 enormi mondi tutti da esplorare.

Passai meno di mezz’ora a giocare, non conoscevo i giochi e non avevo idea di come comportarmi in mezzo a quelle luci, quei suoni e quei colori. Capii soltanto in poco tempo che mi serviva una sedia per arrivare a vedere bene lo schermo, dove avrei dovuto inserire le monetine da 100 lire e come fare i primi timidi movimenti utilizzando i tasti e la manovella (che solo anni dopo sarebbe diventata il joystick).

Mi fu concesso anche i giorni seguenti di andare al bar e fu lì che il terzo giorno, un semplice venerdì pomeriggio, cambiò la mia estate. Sulla porta si materializzarono Matteo e Giulio, il primo nato e cresciuto in paese e l’altro, come me, lì dai nonni per l’estate, da Roma. Tornammo ad essere inseparabili, tutti i pomeriggi dalle 14 alle 17 al bar incollati al video e dopo fuori al parco a giocare a pallone.

Il mondo però per noi diventò diverso, tutto era fatto di pixel, ogni movimento aveva i suoni e le reazioni dei giochi della Sala Arcade. Out Run ci faceva sognare, era il nostro sogno di fuga, il sogno rock’n roll.

I nostri argomenti diventarono le battaglie di Aero Fighter, con i suoi voli e le armi che cambiavano oppure le partite infinite a calcio di World Cup 90 a sognare di portare l’Italia in finale e alla vittoria, anche dopo la sciagurata uscita di Zenga e il goal di Caniggia che infranse i sogni di tutta la nazione. Ma il vero gioco, il vero sogno, era Out Run.

Ferrari Testarossa Spider.

Senza sapere bene perché Out Run divenne la nostra vacanza, la nostra fuga verso il mare o verso nuovi orizzonti.

Lunghi stradoni o paesaggi da sogno al posto di una stanza di un bar della provincia marchigiana, una bella ragazza bionda seduta al proprio fianco in anni in cui ovviamente non c’era la possibilità di fantasticare con internet e soprattutto un Ferrari Testarossa Spider anziché una bicicletta sgangherata. Insomma in quelle partite più o meno lunghe avevamo tutto il massimo che un ragazzino potesse sognare a quell’età all’inizio degli anni ‘90.

Pomeriggi di partite interminabili e scelte drastiche come quelle da prendere sul bivio da percorrere per il proseguimento della partita. Discussioni su dove fosse meglio proseguire, se a destra o a sinistra.
Ore e ore di vita vissuta pixel per pixel e altrettanto tempo passato a raccontarsi l’incidente spettacolare o il sorpasso riuscito a bordo della stupenda Ferrari su cui passammo l’estate del 1990.

Sognando un giorno di percorrerle veramente quelle strade, su una Ferrari Testarossa e con una bionda al proprio fianco, sfrecciando verso il mare della California o più semplicemente verso la Riviera Adriatica.

redits

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