«L’ingresso del teatro era così in discesa che se non avevi le scarpe da tennis scivolavi giù e ti ritrovavi direttamente in palcoscenico.»
Massimo Troisi così narrava del luogo in cui studiava per diventare attore. Erano gli anni ’60: folgorato dal film Roma città aperta, il capolavoro di Roberto Rossellini del ’45, piuttosto che fare il geometra, decide di non voler rinunciare a quel “groviglio di immagini e di emozioni” suscitato dalla visione del film; e allora “gioca” a fare l’attore, prima nel teatro parrocchiale, dove conosce Lello Arena, stringendo con lui un imperituro sodalizio artistico, fino alla televisione, nel ’77, e al cinema con il meraviglioso Ricomincio da tre (1981).
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«Ricomincio da tre! Tre cose mi sono riuscite nella vita, perché devo iniziare da zero?»
Nato in un piccolo paese alle porte di una non troppo ridente Napoli periferica, in una casa umile e sovraffollata, di indole timida – al punto che “non teneva u curaggio” di agganciare le ragazze – e con un grave problema al cuore, Massimo non aveva certo le carte in regola per arrivare dritto al grande pubblico, ai premi e alla fama. Ma lui trasformò gli ostacoli in trampolini. Prese ispirazione per i suoi sketch e fece di quel suo impacciato pudore la cifra di un nuovo “antieroe”, rendendosi protagonista di una rivoluzione comica.
«Sono nato in una casa con 17 persone. Ecco perché ho questo senso della comunità assai spiccato. Ecco perché quando ci sono meno di 15 persone mi colgono violenti attacchi di solitudine»
A metà degli anni ’70, con Arena e Decaro fondò il trio de La Smorfia – nome che viene assegnato al gruppo dalla direttrice del teatro Sancarluccio, Pina Cipriani, che in risposta alla domanda “ma come vi chiamate?” ottiene una smorfia proprio da Troisi, e che accidentalmente richiama la tradizione napoletana dell’interpretazione dei sogni al fine di estrapolarvi numeri da giocare al lotto – e varca i confini degli applausi dei compaesani per portare la sua lingua, quella che nessuno capisce, sul piccolo e poi sul grande schermo.
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“Mettete le scarpe da tennis al cervello” continuava a ripetere la mia professoressa di storia dell’arte per incitarci a vivere in modo “smart”: quella frase oggi mi fa pensare proprio a Troisi, a quell’espressione schiva e a quel tono malinconico viatico di battute di una comicità dirompente, a quel genio indiscusso della risata che ha fatto delle sue non proprio idilliache origini la materia di un umorismo senza tempo. Personalità che trapelava in un’eleganza pulita, priva di orpelli, composta di maglietta, giacca e scarpe da tennis.
In un’indimenticabile intervista di Pippo Baudo, Troisi racconta la sua versione di Napoli, allontanandosi da ogni stereotipo, dicendo della città quel che nessuno osa dire.
Il suo stile, per primo, trasmetteva la sua semplicità; poi gli bastava aprire bocca per notare la sua intelligenza comica.
Prete: Ricordati che devi morire!
Troisi: Come?
Prete: Ricordati…che devi morire!
Troisi: Va bene….
Prete: Ricordati che devi morire!
Troisi: Sì, sì …no… m’o me lo segno, proprio…
Si nota anche in Non ci resta che piangere, capolavoro dell’84, scritto, diretto e interpretato da Troisi con l’amico Roberto Benigni. Vederlo una volta non basta.