Quel cavallo pazzo (non rampante) di Govoni

Author Enrico Rondinelli contributor
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Calendar 28/02/2019
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“Rampare”, verbo intransitivo, non comune: arrampicarsi. Così il vocabolario Treccani spiega il significato del participio presente “rampante”, comunemente affiancato al “cavallino” di Maranello quale simbolo della casa automobilistica che venne donato dalla mamma di Francesco Baracca ad Enzo Ferrari come portafortuna, in memoria del figlio aviatore caduto nella Prima Guerra Mondiale.

“In questa storia il Cavallino Rampante non c’entra, o meglio è solo una comparsa: ad arrampicarsi su per le strade delle gare in salita è Odoardo Govoni, ‘Dino’ per gli amici, un ‘cavallo pazzo’ che ha portato al successo numerose auto in oltre trent’anni di carriera”.

Tra le tante, quelle rimaste nel cuore di Dino portano un tridente sul cofano: lo stemma della Maserati derivato dalla statua del Nettuno, in piazza Maggiore, a Bologna che ― anche se pochi lo sanno ― è la città natale della casa automobilistica. Non lontano dove è nato Dino: Cento, nel bel mezzo della terra dei motori.

A Million Steps

Odoardo Govoni iniziò a correre a metà degli anni ’50 con una tranquilla Fiat 1100TV dimostrando fin da subito una stoffa fuori dal comune; passò quasi subito all’Alfa Romeo Giulietta Sprint, la sportiva dei giovani piloti emergenti, confermando il suo potenziale in qualità di pilota, o di corridore, come veniva definito all’epoca.

“Non era un pilota della domenica, un gentleman driver, come lo definiremmo oggi”.

No, Govoni era veloce, sensibile, capace di interpretare l’auto che aveva sotto al sedere, improvvisando la guida durante i pochi minuti che separavano la partenza dall’arrivo delle cronoscalate.

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Serviva un’auto ancora più potente; alla fine degli anni ’50 si poteva ancora andare davanti alla fabbrica della Maserati, suonare, presentarsi e chiedere di acquistare un’auto da corsa per correre come pilota privato.

Così fece Dino, due volte: la prima acquistò una A6GCS, non nuovissima ma sufficientemente performante per fargli vincere svariate cronoscalate e concludere la 1000 Miglia nel 1957, l’ultima edizione.

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Con quella rossa barchetta (perché rosse non erano solo le Ferrari) riuscì a battere un affermato pilota a bordo proprio di una potente vettura con il cavallino rampante sul radiatore, Luigi Musso, nella prima gara che Dino disputò in pista, nel neonato autodromo di Vallelunga per la precisione.

Incredibile: un giovane pilota, senza una squadra ufficiale al seguito, batteva con una Maserati l’esperto Musso in gara su Ferrari. Le vittorie non mancavano di certo, ma la concorrenza si faceva sempre più armata per cui serviva una nuova arma da sostituire alla A6GCS.

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Govoni, bussò nuovamente alla Maserati chiedendo informazioni su quella sport, dagli inglesi soprannominata “birdcage” (gabbia per uccelli), per via di tutti quei tubi intrecciati che formavano il telaio: l’auto era stata provata poco tempo prima dal campione Stirling Moss, pilota ufficiale Maserati, che la portò alla vittoria in pista poi il progetto fu congelato. Purtroppo in quell’azienda funzionava così, racconta Dino:

“L’ingegner Alfieri era bravissimo nella progettazione: completavano le auto, le facevano provare – in questo caso a Moss che si dichiarò entusiasta – e poi non creavano un vero e proprio programma sportivo, le fermavano”.

Forse per problemi economici o forse perché la proprietà non era del tutto convinta del potenziale mediatico che le corse generavano poi nella vendita di auto stradali, le Maserati da competizione non furono mai sfruttate appieno.

Questa Birdcage, dopo lunghi tentennamenti, venne concessa al pilota, il venerdì prima della gara che si sarebbe svolta domenica: in fondo la Casa non rischiava molto poiché se non avesse portato a casa un risultato, sarebbe stata colpa del pilota ― privato ― altrimenti in caso di vittoria sarebbe stato un successo della Maserati. Così fu: Pontedecimo-Giovi, primo assoluto, di nuovo davanti alla Ferrari.

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Un successo che lasciò tutti sorpresi e rese Dino Govoni ancora più famoso di quanto non fosse già: giovane, di buona famiglia, faceva la bella vita e vinceva, tanto.

Nei notiziari settimanali, trasmessi al cinema prima della puntata settmanale di ‘Lascia o raddoppia’, spesso Dino e le sue Maserati erano protagonisti. In realtà, a quanto ancora oggi racconta lui con estrema umiltà, le Ferrari certamente avevano più motore, più cavalleria, ma il telaio della Maserati garantiva una guida nettamente superiore: ecco perché spesso delle Sport con cilindrata 2000, battevano le 3000.

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In realtà, gran parte del merito era del pilota e di questo se ne accorse Enzo Ferrari il quale ― al contrario di Omer Orsi, proprietario della Maserati ― credeva molto nelle corse. Dino venne chiamato a colloquio dal Commendator Ferrari per correre con le sue auto e di questo non poteva che esserne lusingato; i due si lasciarono con l’intenzione di sentirsi da lì a poco per pianificare la stagione sportiva.

Finalmente arrivò la tanto attesa telefonata ― al telefono fisso, ovviamente ― presso l’attività di famiglia; un impiegato rispose e corse concitato al secondo piano:

“Signor Govoni c’è Ferrari al telefono!” Dino era in bagno e liquidò frettolosamente: ‘Bene, dì che aspetti un attimo’. Una risposta di cui ancora oggi, Dino stesso, non si capacita: “Perché diedi quella risposta, non me lo so spiegare”.

Il sogno di una vita, quella telefonata arrivata in un momento così inopportuno e la risposta peggiore che si potesse dare. A Ferrari, poi. Forse lui pensava che l’accordo fosse già cosa fatta; in realtà Enzo Ferrari aveva un carattere molto particolare e non gradì quella risposta, riagganciando il telefono. Anni dopo, Govoni venne a sapere il commento stizzito del Commentatore:

“Govoni con noi ha chiuso!”

Non con rancore ma piuttosto con curiosità, a 88 anni Dino si domanda come sarebbe cambiata la sua vita se avesse ritelefonato, se fosse diventato un pilota ufficiale Ferrari. In fondo lui non richiamò per non disturbare il Commendatore, non per farsi desiderare.

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Ma la vita continua: Dino non dimentica mai il lavoro (possiede una fornace) e continua parallelamente la sua carriera di pilota. Per una Ferrari persa, sono tante le proposte che gli vengono offerte: il campione del mondo Juan Manuel Fangio lo vuole in Argentina per correre la Temporada; lui va, ma la nostalgia di casa lo fa tornare indietro poco dopo.

Poi corre con le Formula Junior De Sanctis, con la Bandini, la Lotus Formula 3, la Cooper Formula Junior, porta in gara la neonata 5300 GT Strada dell’ingegner Bizzarrini e Karl Abarth lo vuole per correre la cronoscalata Trento-Bondone con le sue auto: anche in questo caso, il rapporto con il “capo” non è dei migliori.

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Una partita di poker la sera prima della gara finita troppo tardi e la poca voglia di alzarsi alle 4 del mattino per provare il tracciato come aveva stabilito il capo (austroungarico) fanno il patatrac. Il primo.

Perché Abarth, era arrabbiato a tal punto con Govoni che fece sostituire di nascosto il suo motore 2000 con un 1000; ma nonostante questo Dino arrivò secondo assoluto a un paio di secondi dalla Porsche, 2000.

E qui la beffa, oltre al danno: con il motore giusto, sarebbe stato un trionfo a mani basse. Abarth si mangiò le mani per scelta troppo frettolosa, Dino non se ne curò più di tanto. La Trento-Bondone l’aveva già conquistata, più volte.

“Persa una gara ne avrebbe vinte tante altre; un cavallo un po’ pazzo”.

La Formula 1 Dino la assaggiò in diverse occasioni, ma bisognava pensare al lavoro, la carriera nella massima serie sarebbe stata troppo impegnativa.

Così la decisione di smettere con le gare a metà anni ’60, finché – poco dopo – non incrociò per strada una nuova De Tomaso Pantera, l’ultima auto nata in quel di Modena che risvegliò in Odoardo la voglia di correre, in pista o salita, purché fosse una gara.

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Potente ma anche pesante, molto diversa dalle Maserati che aveva guidato fino a quel momento, la Pantera era un’auto moderna che diede i migliori risultati in pista, ma anche in salita si difendeva.

“Con lei Dino arrivò terzo assoluto al Giro d’Italia del 1974”.

In quegli anni Govoni alternava la GT italiana alla Porsche 911 ST compagna fedele in pista, in salita e nel Giro d’Italia, gara che univa prove in circuito a cronoscalate, una formula particolarmente adatta alle doti di un pilota eclettico come Govoni.

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Non mancarono tante edizioni della Targa Florio poi l’Europeo ed il Mondiale Marche con la Lancia LC1 e ― finalmente ― anche al volante della Ferrari, una 512 BB Le Mans con cui corse l’ultima gara da pilota professionista: la 1000km di Monza nel 1982.

Con 30 anni di attività in prima linea, 7 titoli italiani, 1 titolo europeo (ma ne manca qualcuno sottratto a tavolino da una “manina”, forse di Maranello, un regolamento di conti), decine di vittorie e numerosi record infranti, Dino ― corridore nel suo DNA ―, ancora oggi trasmette la passione di pilota che ha guidato la sua vita come ha fatto con tutte le sue auto: rampante con grinta fino al traguardo, pur senza un cavallino.

Fotografie gentilmente concesse dall’archivio personale di Odoardo Govoni
redits

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